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Wed, 13 Mar 2024 19:36:02 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/507/greenthesis-group-and-beeah-group-together-for-a-greener-and-more-sustainable-world mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Il sistema comunitario di ecogestione e audit EMAS https://www.andreagrossi.net/post/506/il-sistema-comunitario-di-ecogestione-e-audit-emas

La legislazione che regola l'assunzione di responsabilità da parte degli impianti nella gestione delle problematiche ambientali è materia che ha interessato negli ultimi anni sempre di più le imprese. Per tener conto del cambiamento che le aziende italiane ed estere stanno operando, per conformarsi agli standard ambientali, sono nati strumenti innovativi che dettano principi per una corretta gestione ambientale dei servizi erogati ai cittadini e dei processi produttivi aziendali e che sono in grado di fornire significativi risultati sul piano del controllo e del miglioramento degli impatti ambientali legati alle attività antropiche. Tra questi, la registrazione EMAS[1].

Il Sistema comunitario di ecogestione e audit, ovvero EMAS (Eco-Management and Audit Scheme) è stato emanato nel 1993, salvo essere aggiornato successivamente prima nel 2001 e poi nel 2009, e si basa sull'adesione volontaria delle imprese e delle organizzazioni, sia pubbliche sia private, aventi sede nel territorio della Comunità Europea o al di fuori di esso, che desiderano impegnarsi nel valutare e nel migliorare la propria efficienza ambientale[2]. L’EMAS è quindi uno strumento utile per promuovere l'eco-innovazione.

Le organizzazioni e le imprese che vi aderiscono provvedono all’adozione di un sistema di gestione ambientale e all'attivazione di programmi di gestione ecosostenibili e possono quindi richiedere la registrazione all’Ente di Certificazione che attesti il loro impegno. Questo sforzo viene compensato con premialità in caso di appalti, partecipazione a bandi per l’accesso a stanziamenti o progetti e riduzione dei termini per il rilascio di autorizzazioni[3].

Valutando a livello europeo le imprese che hanno investito per il miglioramento delle proprie prestazioni ambientali rispetto al numero totale delle imprese operanti in ciascun Paese osserviamo che l’Italia si colloca al 10° posto, con un valore di 111[4].

Se limitiamo l’osservazione alle prime 5 economie continentali, la posizione dell’Italia sale al secondo posto dietro la Germania con 151, davanti alla Spagna con 106, il Regno Unito con 87 e, molto più indietro, la Francia con 10.

Inoltre, secondo i dati forniti dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), in Italia, al 2018, risultano registrate EMAS 963 organizzazioni e 4832 siti. Al livello geografico, sia le organizzazioni sia i siti che hanno ottenuto la registrazione si concentrano maggiormente nelle regioni del Nord (più della metà). La restante parte si divide più o meno equamente tra le regioni centrali e del Sud d’Italia. Sono, secondo i dati, per lo più organizzazioni che operano nel settore dei rifiuti a richiedere le registrazioni EMAS, seguite dal settore energetico e dalle amministrazioni pubbliche.

Al contrario, alcuni settori non sono annoverati tra i registrati. Spiccano i produttori di mobili per cucine, di biciclette, di materassi, di strumenti musicali, di allevamento di suini e pollame, di tessuti e tessili, etc.

Recentemente la commissione UE ha ritenuto necessario modificare radicalmente l’allegato IV del regolamento sul sistema di eco-certificazione 1221/2009 per inserirvi i miglioramenti individuati negli anni grazie dell’esperienza acquisita nell’implementazione EMAS.

Tra le novità introdotte c’è la descrizione delle azioni attuate per migliorare le prestazioni ambientali, raggiungere gli obiettivi e garantire la conformità agli obblighi normativi ambientali (compresa una dichiarazione relativa alla conformità giuridica)Íž l’indicazione che i dati riportati devono coprire almeno tre anni di attività; l'adozione di un nuovo indicatore relativo alla "produzione totale di energia rinnovabile" e l'adozione di indicatori di dettaglio per quanto riguarda “l'uso del suolo in relazione alla biodiversità”.

È stato definito un periodo transitorio di un anno tra l’entrata in vigore dell’aggiornamento (8 gennaio 2019) e la sua effettiva osservanza (9 gennaio 2020) per permettere alle organizzazioni di adeguarsi alle modifiche. L’art. 2 recita infatti quanto di seguito: “se la convalida della dichiarazione ambientale o della dichiarazione ambientale aggiornata deve essere effettuata ai sensi del regolamento (Ce) n. 1221/2009 dopo la data di entrata in vigore del presente regolamento ma prima del 9 gennaio 2020, in tale occasione la dichiarazione può, di concerto con il verificatore ambientale e l’organismo competente, essere convalidata senza tener conto della modifica apportata[5].

L’attenzione ai temi ambientali, unito ad un dialogo aperto verso gli stakeholders, costituisce un vantaggio non solo a livello ecologico ma rappresenta per le imprese un ritorno di immagine e di consenso, permettendo la partecipazione di tutti i lavoratori alla gestione delle tematiche riguardanti l’ambiente e favorendo pubblicità positiva dell’azienda verso i clienti ed i fornitori, nella promozione di un’immagine di sviluppo moderno ed efficiente.

Andrea Grossi


[1] si veda anche la certificazione ambientale ISO 14001: La Certificazione Ambientale ISO 14001 e la Registrazione EMAS, sigeambiente, su www.sigeambiente.it/emas/.

[2] Rapporto sull'economia circolare in Italia 2019, a cura del gruppo di lavoro ENEA

[3] Ibid.

[4] L’unità di misura dell’indice eco-innovation activities su media europea ha valore 100.

[5] Andrea Sillani, Emas, parte l’aggiornamento delle comunicazioni ambientali, Reteambiente, 31 gennaio 2019.

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Mon, 9 Sep 2019 19:38:22 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/506/il-sistema-comunitario-di-ecogestione-e-audit-emas mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Mancano impianti di smaltimento: la crisi della plastica negli USA https://www.andreagrossi.net/post/505/mancano-impianti-di-smaltimento-la-crisi-della-plastica-negli-usa

Il quotidiano The Guardian in un’indagine pubblicata a giugno ha evidenziato come la filiera di riciclo delle materie plastiche in America non funzioni, al contrario di ciò che promuove l’industria della plastica.

L’inchiesta ha portato alla luce che centinaia di migliaia di tonnellate di plastica provenienti dal territorio americano vengono spedite ogni anno nei paesi in via di sviluppo, con spedizione mal regolate, e siano destinate ad un processo di riciclaggio sporco e ad alta intensità di manodopera. Le conseguenze per la salute pubblica e l'ambiente sono gravissime[1].

Questi fallimenti nel sistema di riciclaggio si stanno aggiungendo a un crescente senso di crisi intorno alla plastica, un materiale un tempo creduto meraviglioso che ha agevolato la produzione di moltissimi tra i beni di consumo abituali e non, dagli spazzolini da denti agli elmetti spaziali, ma che ora si trova in enormi quantità negli oceani e in quantità preoccupanti anche nel sistema digestivo umano.

Il problema è diventato incombente, tanto da spingere 187 paesi a firmare un trattato che conferisce alle nazioni il potere di bloccare l'importazione di rifiuti di plastica contaminati o difficili da riciclare. Alcuni paesi non hanno firmato. Tra questi, gli Stati Uniti.

I funzionari di tutto il mondo hanno vietato gli inquinanti plastici, come cannucce e borse fragili, eppure l'America da sola genera 34,5 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica ogni anno, sufficienti a riempire uno stadio di calcio 1.000 volte.

Del 9% della plastica americana che secondo le stime dell'Agenzia per la protezione ambientale è stata riciclata nel 2015, la Cina e Hong Kong, che hanno sviluppato una vasta industria di raccolta e riutilizzo delle materie plastiche più preziose per realizzare prodotti che potrebbero essere venduti al mondo occidentale, ne hanno gestito oltre la metà: circa 1,6 milioni di tonnellate.

Purtroppo la gran parte dei rifiuti provenienti dall'America era contaminato da cibo o sporcizia e doveva essere semplicemente messo in discarica in Cina.

Il governo cinese ha, così, deciso di diminuire le importazioni dei rifiuti plastici e cartacei, imponendo a partire dal 1° gennaio 2018 il blocco delle importazioni di 24 tipologie di rifiuti, tra cui plastica, carta da macero e scarti tessili, a cui quest’anno sono state aggiunte altre 16 tipologie, tra cui rottami di auto e navi demolite. Si tratta infatti di materiale considerato di bassa qualità, i cui costi di importazione e riciclaggio non sono più convenienti per il mercato cinese. La Cina ha deciso quindi di importare solo rifiuti “di qualità”, più facilmente riciclabili, ma così facendo ha provocato problemi enormi, che a cascata riguardano tutti i paesi che per anni avevano venduto alla Cina i loro rifiuti[2].

In occasione del recente Global Recycling Day, una rivista prestigiosa quale The Atlantic ha pubblicato un lungo articolo dal titolo gravato di un pesante punto interrogativo che non lascia spazio a metafore: “Is this the end recycling?”. È la fine per il riciclaggio?[3]

Dopo il divieto cinese, i rifiuti di plastica americani sono quindi diventati una patata bollente globale, e stanno rimbalzando da un paese all'altro.

Uno studio condotto dalla ricercatrice dell'Università della Georgia Jenna Jambeck ha evidenziato come la Malesia, il più grande destinatario del riciclaggio di plastica degli Stati Uniti dopo il divieto cinese, abbia gestito male il 55% dei propri rifiuti di plastica, che sono stati scaricati o smaltiti in modo inadeguato in siti come discariche aperte. Anche l’'Indonesia e il Vietnam hanno gestito erroneamente rispettivamente l'81% e l'86%.

Poiché però anche paesi come il Vietnam, la Malesia e la Thailandia hanno vietato le importazioni, i documenti mostrano che i rifiuti di plastica si stanno dirigendo verso nuovi paesi. Le spedizioni iniziano ad arrivare in Cambogia, Laos, Ghana, Etiopia, Kenya e Senegal, che in precedenza non avevano gestito praticamente nessuna plastica statunitense.

Il Guardian ha scoperto che ogni mese durante la seconda metà del 2018, le navi portacontainer hanno trasportato circa 260 tonnellate di rottami di plastica statunitensi in uno dei luoghi più distopici e ricoperti di plastica di tutti: la città costiera cambogiana di Sihanoukville, dove, in alcune aree, quasi ogni centimetro dell'oceano è coperto di plastica galleggiante e la spiaggia non è altro che un luccicante tappeto di polimeri[4].

La plastica è giunta lì attraverso una fitta, complessa e nefasta rete commerciale che attraversa gli oceani e in cui pochi consumatori comprendono il loro ruolo che ricoprono al suo interno. Ora, quella rete è a un punto di rottura.

In passato, aveva senso economico spedire la plastica in Asia, perché le compagnie di navigazione che trasportano i manufatti cinesi negli Stati Uniti finiscono con migliaia di container vuoti. In assenza di merci americane per riempirle, le aziende sono state disposte a spedire il riciclaggio americano a prezzi stracciati.

Non possiamo far altro che abbracciare ciò che ha recentemente scritto Michael J Sangiacomo di Recology in un editoriale: “Il fatto è che semplicemente c'è troppa plastica e troppi tipi diversi di plastica che viene prodotta e ci sono pochi, se non nessuno, mercati finali possibili per il materiale[5].

Andrea Grossi


[1] Erin McCormick, Where does your plastic go? Global investigation reveals America’s dirty secret, The Guardian, 17 giugno 2019.

[2] La crisi del riciclo negli Stati Uniti, il Post, 6 marzo 2019.

[3] Marco Valsania, La guerra dei rifiuti tra USA e Cina mette a rischio il riciclaggio globale, 13 aprile 2019.

[4] Erin McCormick, Where does your plastic go? Global investigation reveals America’s dirty secret, The Guardian, 17 giugno 2019

[5] Ibid.

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Wed, 4 Sep 2019 19:55:23 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/505/mancano-impianti-di-smaltimento-la-crisi-della-plastica-negli-usa mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Sharing e Mobility Manager: così innovazione e nuove figure professionali favoriscono l’economia circolare https://www.andreagrossi.net/post/504/sharing-e-mobility-manager-cosi-innovazione-e-nuove-figure-professionali-favoriscono-l-economia-circolare

Il passaggio da un’economia lineare ad un’economia circolare può essere promosso attraverso forme innovative di consumo che prevedono la condivisione di beni e servizi. Sharing economy e pay-per-use sono sicuramente un esempio di questo modo “alternativo” di guardare al prodotto, permettendo di aumentare il tasso di utilizzo del prodotto stesso e di migliorare la sua efficienza in generale.

Attualmente l’Italia non si avvale ancora di questi modelli di mercato tanto quanto il resto d’Europa. Il nostro Paese risulta particolarmente attivo nel settore dei trasporti (car/bike/motobike sharing) e degli imballaggi (per i pallet o per alcune bottiglie di vetro). Alla condivisione così intesa, si preferisce piuttosto il mercato del noleggio, soprattutto per ciò che concerne le apparecchiature. Prendendo spunto da alcuni dati forniti da Eurostat sul noleggio e il leasing di apparecchiature per uffici, compresi i computer, relativamente alle 4 più grandi economie europee, osserviamo come il nostro Paese vanta la presenza più numerosa di imprese – 599 nel 2016 a fronte delle 287 e 276 rispettivamente della Germania e della Francia, e delle 453 (dato 2015) del Regno Unito -, ma con un fatturato molto più basso nello stesso anno rispetto a quello della Francia e della Germania. Un adeguamento ai fatturati francesi o tedeschi consentirebbe anche di incrementare ulteriormente un’occupazione già significativa per l’Italia[1].

Per poter rendere più efficace l’approdo a questo nuovo modello di consumo (che ci guiderà così verso una circular economy) nelle aziende, si è venuta a creare una nuova figura professionale dedicata al settore della mobilità condivisa: il Mobility Manager.

La mobilità condivisa è un fenomeno che consiste in una generale trasformazione del comportamento degli individui che, progressivamente, tendono a preferire l’accesso temporaneo ai servizi di mobilità piuttosto che utilizzare il proprio mezzo di trasporto, fino a non possederlo affatto. Dal lato dell’offerta, questo fenomeno consiste nell’affermazione e diffusione di servizi di mobilità che utilizzano le piattaforme digitali per facilitare la condivisione di veicoli e/o tragitti, promuovendo servizi flessibili e scalabili che sfruttano le risorse latenti già disponibili nel sistema dei trasporti.

Il Mobility Manager è il responsabile della mobilità aziendale. Tale figura professionale è stata introdotta in Italia con il D.M. 27 marzo 1998, recante norme in materia di “Mobilità sostenibile nelle aree urbane”. In base al testo di legge, il compito principale del Mobility Manager Aziendale è la redazione del Piano degli Spostamenti Casa Lavoro (PSCL) del proprio personale dipendente, finalizzato alla “riduzione dell’uso del mezzo di trasporto privato individuale e ad una migliore organizzazione degli orari per limitare la congestione del traffico”. Il piano, che deve essere trasmesso entro il 31 dicembre di ogni anno, è importante in quanto, oltre ad influire positivamente sulla qualità dell’aria (riducendo il traffico e quindi le emissioni in atmosfera ad esso collegate), permetterebbero all’organizzazione e a chi lavora per essa, di ottimizzare i costi per gli spostamenti[2]. Il decreto stabilisce che le imprese e gli enti pubblici con più di 800 addetti ubicate in comuni identificati dalle regioni come a “rischio di inquinamento atmosferico” sono tenuti ad adottare il PSCL e ad identificare il responsabile della mobilità. In tal caso il Mobility Manager Aziendale diventa una figura cruciale per l’impresa. Ogni organizzazione può naturalmente dotarsi di un responsabile della mobilità qualora lo ritenga opportuno.

Vi sono tre differenti tipi di Mobility Manager: aziendale, il cui compito principale è redigere il PSCL; di area, che gestisce le strutture di supporto e coordinamento dei Mobility Manager Aziendali; scolastico, che agevola e organizza gli spostamenti casa-scuola degli alunni e del personale.

Il Sole 24 ore nel 2016 ha censito in Italia circa 850 Mobility Manager, di cui 750 aziendali.

Le iniziative in merito allo sharing non stanno solo investendo il mercato della mobilità. Queste stanno approdando ad uno dei settori al momento meno ecosostenibili: l’industria tessile.

La spesa totale delle famiglie per l’abbigliamento nell’Unione Europea è risultata nel 2012 pari a 314 miliardi di euro, corrispondente al 4,2% della spesa totale delle famiglie. Ed è aumentato di circa il 40% tra il 1996-2012[3].

La produzione e il consumo nel settore tessile è, ad oggi, ancora basato sul modello economico lineare in cui gli indumenti a fine vita vengono smaltiti in discarica. Le prime iniziative di sharing in questo settore si sono concentrate sulla raccolta e il riutilizzo di abiti usati. Uno studio condotto dall’ECAP (European Clothing Action Plan) ha realizzato una ricognizione in 6 città europee di buone pratiche dedicate alla raccolta di abiti e tessuti usati ai fini del riuso[4].

In particolare, l’analisi dell’ECAP valuta le prestazioni di raccolta attraverso una stima dei tassi di recupero dei tessuti a fine vita e delle quantità di tessuti usati raccolti espressi come percentuale di nuovi prodotti tessili immessi sul mercato.

L’Italia, a fronte di un consumo abbastanza elevato di prodotti tessili, presenta un tasso di raccolta basso rispetto alle altre realtà europee: le quote di raccolta variano dall’11% in Italia a oltre il 70% in Germania.

Andrea Grossi


[1] Si veda il Rapporto sull’economia circolare in Italia del 2019, Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo sostenibile.

[2] Eleonora Perotto, Mobility Manager, chi è, cosa fa, come si diventa, quanto si guadagna, Teknoring.

[3] Dati EEA, 2014.

[4] Si veda il Rapporto sull’economia circolare in Italia del 2019, Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo sostenibile.

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Mon, 19 Aug 2019 20:15:47 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/504/sharing-e-mobility-manager-cosi-innovazione-e-nuove-figure-professionali-favoriscono-l-economia-circolare mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
L’arte per la natura, il primo tributo all’ecosostenibilità https://www.andreagrossi.net/post/503/l-arte-per-la-natura-il-primo-tributo-all-ecosostenibilita

Il mondo dell’arte non è estraneo al sempre più discusso concetto di sostenibilità ambientale. Al contrario, possiamo dire che sia il precursore del vivere e creare in ottemperanza e nel rispetto dei valori ambientali. Negli anni Settanta nasceva, infatti, in America la Land Art che poneva la natura al centro del discorso artistico, facendo uso di materiali naturali per comporre le opere, rendendole così deperibili.

Questo tipo di arte, nata come movimento di rottura con la precedente idea di un’arte commerciale svolta per lo più in ambienti di lavoro chiusi, prediligeva l’utilizzo di materiali quali rami, sassi, foglie e tutto ciò che la natura poteva mettere a disposizione salvo poi restituire, nel momento di deperimento dell’opera, tutto ciò che l’ambiente aveva donato.

Nel tempo, la Land Art si è trasformata e differenziata in molteplici filoni. In Svizzera a Grindelwald, ancora oggi, ha luogo il Landart Festival, forse la più importante manifestazione al mondo che celebra l’arte sostenibile. Alla manifestazione partecipano ogni anno artisti provenienti da tutto il mondo, dall’Europa al Canada alla Corea del Sud[1].

Anche l’Italia si è appropriata di questa fetta di costume ideando manifestazioni per onorare le diverse sfaccettature dell’arte nella sostenibilità: una delle più famose è l’Apulia Land Art Festival. Figlia della tradizione della Land Art, l’Apulia Land Art Festival è sbarcata in Italia nel 2012 in Puglia e rappresenta il punto d’incontro tra l’arte contemporanea e il territorio; promuove la creazione artistica in particolari contesti paesaggistici.

Ma sono moltissime le iniziative artistiche legate all’ecosostenibilità, alla fotografia alla pittura, dalla scultura all'architettura, dal teatro alla musica. Tutte le arti possono essere declinate secondo principi di sostenibilità e armonia con l'ambiente.

Col titolo "Mettiamo mano al nostro futuro", l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (Asviv) ha condotto la terza edizione del Festival dello sviluppo sostenibile che si è chiusa da poco e che ha avuto come fine ultimo l'obiettivo di creare le condizioni per consentire all'Italia di attuare l'Agenda 2030 delle Nazioni Unite e centrare i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile, sottoscritti da 193 nazioni nel 2015[2].

L’università Ca’ Foscari di Venezia è già molto (dal 2013) che sta sviluppando il tema di Arte e Sostenibilità, costruendo progetti che enfatizzino il legame fra la sostenibilità e il mondo dell’Arte, quest’ultimo particolarmente connesso alla città di Venezia e ad alcuni dei principali settori di ricerca di Ca’ Foscari.

I progetti coinvolgono una molteplicità di soggetti – studenti, artisti, docenti e ricercatori, comunità locale e internazionale – e permettono di aumentare la consapevolezza delle problematiche legate ai cambiamenti globali e di fare divulgazione scientifica, condividendo soluzioni e ambiti di ricerca, proprio nell’ottica interdisciplinare che è peculiare del tema della sostenibilità[3]

È infatti alla sua terza edizione il Sustainable Art Prize, un premio sui temi della sostenibilità dedicato agli artisti presenti ad ArtVerona. Anche qui l’obiettivo è quello di promuovere lo sviluppo sostenibile e creare una coscienza ecologica comune, in un presente in cui si vontinuano a depredare inconsapevolmente le risorse a nostra disposizione[4].

L’iniziativa si inquadra in un contesto più ampio, una vera e propria missione dell’Università Ca’ Foscari di promozione e promulgazione dell’Agenda 2030, accordo di 17 punti sottoscritto dai leader mondiali delle Nazioni Unite per l’impegno ecologico e la salvaguardia del pianeta

Andrea Grossi


[1] Land Art: anche l’arte è sostenibile, Effetto Terra.

[2] Giovanni Gagliardi, La collezione Guggenheim e Asvis, l’arte si fa sostenibile, la Repubblica, 22 maggio 2019.

[3] Per approfondimenti si veda la sezione Arte e Sostenibilità del sito dell’università: www.unive.it.

[4] Abbiamo da poco raggiunto, infatti, l’Earth Overshoot Day, il giorno che segna il termine delle risorse rinnovabili a disposizione per l’intero anno solare. A partire da questo giorno l’uomo sarà costretto ad attingere dalle riserve. L’emergenza si evidenzia se si tiene conto che quest’anno l’Earth Overshoot Day è stato il 29 luglio, nel 2018 il primo agosto, trent’anni fa a metà ottobre. Silvia Morosi, Earth Overshoot Day 2019, dal 29 luglio abbiamo finito tutte le risorse annuali della Terra, il Corriere della Sera, 29 luglio 2019.

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Mon, 12 Aug 2019 17:38:35 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/503/l-arte-per-la-natura-il-primo-tributo-all-ecosostenibilita mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
La nuova eco-plastica spiana la strada verso il futuro https://www.andreagrossi.net/post/502/la-nuova-eco-plastica-spiana-la-strada-verso-il-futuro

Da diversi anni si stanno vagliando alternative possibili all’utilizzo del tradizionale asfalto per il rivestimento delle strade, che rilascia nell’atmosfera circa 27 kg di Co2 per ogni tonnellata prodotta, contribuendo così all’aumento del calore urbano[1].

È dell’ingegnere Toby McCartney, irlandese e CEO della compagnia MacRebur, l’idea di costruire strade in plastica, economiche ed ecosostenibili, sostituendo il materiale riciclato ai combustibili fossili presenti nell’asfalto. Una vera iniziativa green che si affaccia in un momento in cui la plastica è giunta ad avere un impatto devastante sull’ambiente e sull’ecosistema terrestre. McCartney rovescia così il concetto di utilizzo e aggiunge un nuovo traguardo alla frontiera del riciclo.

La sfida è stata accettata dall’amministrazione di Londra, che ha ripavimentato una delle principali e più trafficate strade del borgo di Enfield con il nuovo asfalto che annovera al suo interno, al posto del convenzionale bitume, un mix di plastiche riciclate. Ogni tonnellata di questo eco-composto impiega dai 3 ai 10 kg di plastica riciclata con il vantaggio di essere più economico nella produzione e più resistente all’usura[2].

Enfield è entusiasta di questa prova su strada e speriamo di poter ampliare l’utilizzo di questi materiali nel nostro distretto per deviare la plastica dalla discarica alla costruzione di strada e ridurre così l’utilizzo di combustibili fossili” dichiara Daniel Anderson, membro del consiglio di Enfield per l’ambiente[3].

La MacRebur aveva già iniziato a sperimentare il nuovo asfalto pavimentando differenti tratti stradali, compreso uno dell’autostrada A7 nel Lake District in cui sono state recuperate circa cinquecentomila bottiglie. La stessa plastica riciclata dai londinesi negli appositi contenitori blu.

Ocean Watch, organizzazione per la tutela degli oceani, stima che ci siano 140 milioni di tonnellate di plastica nei mari del mondo e nonostante molte associazioni stiano da anni operando per la salvaguardia degli oceani e la raccolta di plastica nei mari, nel 2014 meno di un terzo della plastica mondiale è stato riciclato[4].  

 “Questi prodotti offrono un modo unico di migliorare l’asfalto restituendo una soluzione economica e duratura” afferma la società, che del riciclo della plastica ha fatto uno dei suoi principali obiettivi aziendali, come si legge nella home del loro sito: “MacRebur’s mission is to help solve the waste plastic epidemic and the poor quality of roads we drive on around the world today” (“La missione della MacRebur è quella di aiutare a risolvere l'epidemia di plastica di scarto e la scarsa qualità delle strade che percorriamo oggi in tutto il mondo”)[5].

La stima sull’iniziativa londinese ha già fornito i primi dati positivi. Il monitoraggio della strada ha dimostrato, infatti, che l’eco-asfalto sta funzionando bene e si sta avvalorando l’ipotesi di applicarlo anche in altri distretti di Londra.

Tuttavia McCartney non è stato il primo a teorizzare l’utilizzo di materiale ecosostenibile per la riqualificazione del manto stradale. In Olanda, nel 2017 la Kws, società del gruppo edilizio VolketWessel, ha messo a punto un progetto denominato PlasticRoad[6], sicuramente più complesso, un sistema di strutture modulari composte interamente di materiale riciclato, che si incastrano tra loro costituendo di fatto una superficie stradale molto più resistente dell’asfalto. Detti moduli hanno il duplice pregio di permettere il passaggio di tubazioni e cavi elettrici ed essere facilmente sollevati per favorire gli interventi di manutenzione.

In India, il Professor Rajagopalan Vasudevan, docente di chimica presso il Thiagarajar College of Engineering, ha formulato l’utilizzo di uno speciale tipo di asfalto composto da plastica di scarto triturata aggiunta al bitume riscaldato. Nella città di Chennai, Jambuligam Street è stata realizzata già dal 2002 con questo materiale e attualmente tale strada non presenta buche da usura o crepe causate da agenti atmosferici. Il governo indiano ha quindi stanziato, lo scorso anno, 11 miliardi di dollari per realizzare 83 mila chilometri di nuove strade entro cinque anni[7].

Non possiamo far a meno di notare che soluzioni di questo genere non solo sono teorizzabili ma già esistono e possono essere facilmente adottate dai vari Paesi. Iniziative come quella di McCartney gettano le basi per un futuro in cui il dialogo fra tecnologia e ecologia non solo è possibile, ma è viva sorgente di progresso.

La sostenibilità per un futuro migliore è il medesimo concetto che sta alla base del tema della prossima Esposizione Universale: “Connecting minds, creating the future” (“collegare le menti, creare il futuro”). L’Esposizione Universale, che avrà luogo a Dubai (la prima dei paesi del Medio Oriente ad ospitarne una) a partire dall’ottobre 2020, si concentra non su un tema ma su una vera e propria missione, che vede nella collaborazione fra popoli la chiave per lo sviluppo e l’innovazione.

Andrea Grossi


[1] Erika Seghetti, Strada di plastica riciclata, in Olanda parte la sperimentazione, green.it, 21 febbraio 2017.

[2] Omar Abu Eideh, Plastica riciclata al posto del bitume: il test del nuovo asfalto ecologico a Londra, La Stampa “Motori”, 6 aprile 2018.

[3] Ibid.

[4] Francesca Mancuso, Le strade di Londra rifatte con asfalto che ricicla la plastica (e riduce le buche), greenMe, 14 marzo 2018.

[5] Dal sito ufficiale della MacRebur (www.macrebur.com).

[6] Erika Seghetti, Strada di plastica riciclata, in Olanda parte la sperimentazione, green.it, 21 febbraio 2017.

[7] Omar Abu Eideh, Plastica riciclata al posto del bitume: il test del nuovo asfalto ecologico a Londra, La Stampa “Motori”, 6 aprile 2018.

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Mon, 29 Jul 2019 18:51:07 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/502/la-nuova-eco-plastica-spiana-la-strada-verso-il-futuro mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Expo 2020 Dubai: ottenere un futuro con la Sostenibilità https://www.andreagrossi.net/post/501/expo-2020-dubai-ottenere-un-futuro-con-la-sostenibilita

Alla vigilia del periodo meno ecosostenibile che il mondo abbia visto e nel bacino dove si prevede la maggior crescita demografica nei prossimi 10 anni[1] e la più seria crisi delle risorse idriche, Expo Dubai mostrerà come i 100 Paesi che prendono parte all’iniziativa sono capaci di cambiare il futuro invertendo questa tragica aspirale ascendente.

A partire da ottobre 2020 e per la durata di un anno, Dubai ospiterà la prossima Esposizione Universale. Il flusso previsto è di circa 25 milioni di visitatori (il 70% dei quali provenienti da oltreoceano) e sarà la prima ad aver luogo in un paese arabo. La fine dei lavori è prevista per la fine del 2019 e il nuovo anno aprirà contemporaneamente le porte all’Expo e ai festeggiamenti del Gold Jubilee degli Emirati Arabi, il cinquantesimo anniversario del Paese dall’indipendenza dal Regno Unito (2 dicembre 1971).

Il tema dell’evento è Connecting Minds, Creating the Future (collegare le menti, creare il futuro), sotto il quale si raccolgono tre differenti concetti che approfondiscono e motivano l’intento di creare un nuovo domani: sostenibilità, per un progresso che non comprometta la vita e i bisogni delle prossime generazioni; mobilità, per creare nuove e più efficienti connessioni (siano esse fisiche o virtuali) tra persone, comunità e Paesi; opportunità, da sbloccare a vantaggio del futuro dei popoli.

La sostenibilità sarà quindi uno degli argomenti portanti di tutta l'esposizione. Adesso più che mai non è possibile per la comunità mondiale accettare la creazione di una manifestazione a livello globale che inquini e sprechi preziose risorse. Neanche il “paese del petrolio” può rimanere indifferente alla prossima grande crisi naturale. Gli organizzatori hanno quindi profuso il massimo impegno e si sono avvalsi della consulenza di specialisti e progetti da tutto il mondo per creare un'esposizione più possibile green.

Ne è un esempio l’utilizzo dell’elettricità durante l’evento, metà della quale sarà generata attraverso fonti rinnovabili. L’intero sito sarà coperto da un tessuto fotovoltaico sospeso sopra i padiglioni. Lo scopo degli organizzatori è quello di generare almeno metà dell’energia necessaria alla manifestazione direttamente sul luogo, assicurando nel frattempo ombra durante tutto il giorno. E al calar del sole l’intera struttura si trasformerà in uno schermo illuminato da luci e proiezioni digitali. Il 90% del materiale da utilizzare nelle nuove costruzioni sarà invece riconvertito e riutilizzato da vecchi edifici e infrastrutture[2].

L’area espositiva di Dubai 2020 sarà allestita nei 400 ettari del nuovo quartiere Dubai Center-Jebeli Ali, vicino l’Aeroporto Internazionale Al Makotum. Il sito è equidistante dalle città Dubai e Abu Dhabi. Una fitta rete di trasporti inoltre collega l’expo alle città. Tuttavia è in fase di realizzazione l’Hyperloop, un treno a capsule alimentato a pannelli solari in grado di permettere gli spostamenti tra una città e l’altra in 12 minuti (per 157 km). All’interno dell’area espositiva troviamo inoltre cabinovie, bus a zero emissioni e sarà ostruita un’apposita stazione metropolitana a Dubai[3].

La mobilità vedrà anche il contributo dell’Italia attraverso la realizzazione di mezzi di trasporto a guida autonoma formati da piccoli moduli autonomi. I moduli (paragonabili a piccole funivie ma senza cavi) sono in grado di ruotare su sé stessi e di parcheggiare agevolmente grazie alla forma cubica. Possono inoltre essere agganciati e sganciati a piacimento, permettendo la regolazione di volta in volta in base ai flussi. Un algoritmo raccoglie in tempo reale le destinazioni richieste dagli utilizzatori e calcola i vari percorsi diversificati: così se in un “bus” parte dei passeggeri deve raggiungere una destinazione differente, i diversi moduli resteranno agganciati per la prima tratta per poi sganciarsi diventando due o più minibus autonomi diretti in luoghi differenti. Una grande innovazione che permetterà di ottimizzare sia consumi che mobilità[4].

E non sarà il solo contributo che il nostro paese darà all'esposizione. Il padiglione dell’Italia sarà un grande hub esperienziale di innovazione, espressione delle più avanzate forme di sostenibilità. Non solo plastic free, sarà realizzato nei migliori intenti ecosostenibilie vedrà ogni giorno la partecipazione di studenti, docenti, imprenditori, manager, professionisti e artisti.

Il padiglione è intitolato alla “Bellezza che unisce le persone” e sarà, oltre ad un esempio di sostenibilità, un modello di circular economy, all’avanguardia per progettazione integrata e utilizzo di materiali riciclati, durevoli, naturali e di tecnologie per il massimo contenimento dei consumi energetici e idrici con sistemi raccolta e riciclo delle acque, di smaltimento dei rifiuti e di riduzione dell’inquinamento acustico e luminoso.

L’Italia a Dubai punterà alla sostenibilità educativa, con la partecipazione di studenti e un’offerta formativa di oltre 40 università; racconterà la sostenibilità culturale attraverso orchestre, cori, cinema, design, artisti, musicisti, scenografi; spiegherà la sostenibilità agro-alimentare delle nostre filiere che lavorano sugli standard più avanzati di produzione agricola e ittica, sulla difesa della biodiversità nei campi e in mare; volgerà lo sguardo alla sostenibilità spaziale insieme all’Asi e ad altre imprese aerospaziali per il monitoraggio degli ecosistemi e la sicurezza dei mari e delle coste; affronterà il dibattito sulla sostenibilità salute-alimentazione con la medicina innovativa dei cluster pharma[5].

Andrea Grossi


[1] L’area che prende il nome di Me.Na.Sa (Middle East, North Africa e South Asia).

[2] Giampiero Spelozzo, Dubai Expo 2020 in 10 punti: cosa sapere sulla prossima Esposizione Universale, Vivi Dubai, 8 marzo 2019.

[3] Ibid.

[4] Bus modulari a guida autonoma, startup italiana conquista Dubai (e Padova), Innovation Nation, 11 febbraio 2019.

[5] Paolo Glisenti, All’Expo 2020 Dubai Italia leader nella sostenibilità, il Sole 24ore, 30 maggio 2019.

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Mon, 22 Jul 2019 17:24:34 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/501/expo-2020-dubai-ottenere-un-futuro-con-la-sostenibilita mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Ocean Clean Up: primo stop per la raccolta dei rifiuti plastici negli oceani https://www.andreagrossi.net/post/500/ocean-clean-up-primo-stop-per-la-raccolta-dei-rifiuti-plastici-negli-oceani

Anche se nessuno sa esattamente quanta ce ne sia e i dati scientifici a riguardo abbiano ancora una grande variabilità, si può affermare con sicurezza, e preoccupazione, che gli oceani siano pieni di plastica. Uno studio pubblicato nel 2014 sulla rivista “Plos One” stimava che in acqua ce ne fossero un minimo di 5,25 trilioni di pezzi, per un peso complessivo intorno alle 268.940 tonnellate. Un nuovo studio, pubblicato su “Science” nel 2015, ha stimato invece che ogni anno arrivino in mare tra 4 e 12 milioni di tonnellate ovvero una quantità compresa tra l’1,5 per cento ed il 4,5 per cento della produzione mondiale, con stime in crescita che ci dicono che tale cifra nei prossimi dieci anni raddoppierà. L’era odierna è dominata da questa quasi indistruttibile invenzione umana, così quando ci riferiamo al termine “plastica” indichiamo non uno ma vari materiali, tra cui numerosi polimeri sintetici - cloruro di polivinile o PVC, polietilene (PE), polietilene tereftalato (PET) solo per citare i più comuni - e le cosiddette plastiche verdi o bioplastiche. I primi prodotti a partire dal petrolio, le seconde da biomasse di origine vegetale: la differente origine determina la maggiore, minore o nulla biodegradabilità di ciò che comunemente chiamiamo plastica. E così mentre alcuni prodotti con un lungo processo tornano a scomporsi fino a degradarsi quasi completamente e rompersi fino a tornare a componenti iniziali come acqua, anidride carbonica e metano, in una scala di tempo ragionevole, altri sono destinati a sopravvivere quasi in eterno (considerando che si parla di centinaia, forse addirittura migliaia di anni). Alcuni tipi di plastica affondano così sui fondali o vengono gettati dalle onde sulla riva, mentre altri, galleggianti, seguono le rotte oceaniche. Una volta lì, si accumulano, formano vere e proprie isole di plastica e alla fine si scompongono in micro e nano-plastica. Capire come queste isole di immondizia si formano e riuscirne a quantificarne la persistenza è oggi una domanda chiave per la comunità scientifica al fine di comprendere la fonte, il trasporto ed il destino della plastica oceanica.

Ripulire gli oceani è forse il progetto ambientalista più vasto ed ambizioso mai realizzato sul pianeta, ad idearlo a soli 17 anni è stato l’olandese Boyan Slat che ha avuto l’idea di raccogliere la plastica dei mari sfruttando il sistema delle correnti attraverso l’uso di innovative barriere, modulari e scalabili, di plastica galleggiante. Nel 2013 è nata così “The Ocean Cleanup” società che in pochi mesi è riuscita grazie ad una piattaforma di crowdfunding, nonché ad un’ottima campagna di marketing, a raccogliere sul web oltre un milione e mezzo di euro con cui ha iniziato a costruire il “Sistema 001 Wilson”, il prototipo che a settembre 2018 ha lasciato San Francisco per un primo test di due settimane prima di dirigersi verso il Great Pacific Garbage Patch (GPGP), la più nota delle aree oceaniche del mondo dove si accumulano macro e micro-plastiche e che nell’immaginario collettivo creano “isole di plastica” che in realtà sono vortici dove, grazie alle correnti e a particolari condizioni meteorologiche si creano lenti vortici di acqua infestata da una “zuppa” di plastica che muta la composizione della biodiversità marina e rilascia sostanze chimiche in mare.

“Estrarre, spedire, riciclare” : questo è il mantra che si legge sul sito ufficiale del progetto. A pulizia avviata una nave che fungerà da camion della spazzatura dei mari rimuoverà la plastica raccolta ogni pochi mesi. La plastica verrà poi lavorata a terra e ordinata per il riciclaggio, anche se non si sa al momento dove e come questo avverrà. Parallelamente allo sviluppo della tecnologia per estrarre la plastica dall'oceano, infatti, il team sta studiando anche come riutilizzare il materiale una volta tornato a terra: “Il lavoro iniziale sul riciclaggio della plastica oceanica dimostra che il nostro materiale può essere trasformato in prodotti di alta qualità. Immagina che il tuo prossimo telefono, sedia, paraurti o occhiali da sole potrebbe essere fatto da plastica recuperata dal Great Pacific Garbage Patch. Vendendo il nostro materiale di marca per il riutilizzo, miriamo a rendere la pulizia autosufficiente.”

A poco più di tre mesi dal pomposo varo, l'ambizioso progetto non ha però catturato le tonnellate di plastica previste, a parte 2 tonnellate di reti da pesca abbandonate. Wilson sembrava, infatti, essere in grado di attrarre e concentrare la plastica, ma non di immagazzinarla per un suo successivo smaltimento. Secondo gli esperti una delle possibili cause è legata alla velocità troppo ridotta del sistema che gli ha impedito di trattenere il materiale plastico. Per ovviare a tale problema le due estremità sono state allungate con l’aggiunta di ulteriori elementi in modo da incrementare la superficie esposta al vento e aumentare così la velocità del sistema, ma nemmeno questa soluzione ha funzionato. La nuova proposta è stata quindi quella di rimuovere gli annessi e focalizzarsi sulla cosiddetta locking line, ovvero la distanza che separa le due estremità del sistema. Purtroppo i test non sono durati a lungo per studiarne gli effetti a causa del malfunzionamento registrato dopo alcune settimane che ha obbligato Wilson a spostarsi in direzione delle Hawaii rimorchiato dalla nave Maersk Launcher. In base a quanto previsto nel programma originale, nel corso del prossimo anno l’apparecchiatura, una volta riparata e migliorata, dovrebbe comunque riuscire ad ultimare i test e soprattutto essere in grado di rispondere alla domanda fondamentale: gli ingegneri olandesi della "The Ocean Cleanup" sono veramente riusciti a inventare il primo metodo in grado di estrarre grandi quantitativi di detriti di plastica dal mare?

Andrea Grossi

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Mon, 15 Jul 2019 18:32:37 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/500/ocean-clean-up-primo-stop-per-la-raccolta-dei-rifiuti-plastici-negli-oceani mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Il problema dei rifiuti speciali, un’altra emergenza arginabile grazie a nuovi impianti https://www.andreagrossi.net/post/499/il-problema-dei-rifiuti-speciali-un-altra-emergenza-arginabile-grazie-a-nuovi-impianti

I rifiuti speciali in Piemonte sono gestiti mediante il Piano Regionale di gestione (PRRS) approvato con Delibera del Consiglio Regionale 253-2215 del 16/01/2018, un documento che si fa carico dei principi europei in merito ad una transizione verso l’adozione di un’economia circolare e che promuove la reintroduzione dei materiali già trattati in precedenti cicli produttivi.

La normativa ha assimilato quindi gli obiettivi di riduzione della produzione e della pericolosità dei rifiuti speciali, il sostegno al loro riciclaggio, la previsione dell’affidamento al recupero energetico, la diminuzione del conferimento in discarica e, in ultimo, il completo appoggio ad un piano di investimenti per sviluppare una maggiore impiantistica territoriale che sia in grado di ottemperare al principio di prossimità e favorire lo sviluppo di una green economy piemontese. Secondo questa direttiva, infatti, ogni tipologia di rifiuto avrà a disposizione la localizzazione di aree idonee alla realizzazione dei relativi impianti di trattamento.

A partire da questi generic goals si possono poi definire tutte le direttive delle singole filiere di rifiuti speciali e quelle inerenti all’utilizzo di prodotti riciclati nella pubblica amministrazione, oltre che gli obiettivi di riduzione delle esportazioni e quelli riguardanti gli incentivi per l’installazione sul territorio di tecnologie impiantistiche e di poli d’innovazione tecnologica.

Nel particolare settore dei rifiuti edili si procede con l’adozione di linee guida per la demolizione selettiva così da arrivare ad un 85% di materiali recuperato da costruzioni e demolizioni su un totale di 40.000 aziende interessate, una percentuale anche maggiore rispetto a quella approvata dalla UE in sede di Commissione.

Frutto di una collaborazione tra gli uffici regionale e l’Arpa Piemonte, questo PRRS si prefigge quindi di fornire un quadro il più dettagliato possibile della situazione dei rifiuti speciali pericolosi e non pericolosi gestiti in Piemonte, dettagliandoli in base alla loro origine e qualità. Al suo interno, inoltre, vi è una fotografia delle capacità impiantistiche di trattamento, di recupero e di smaltimento, oltre che dei flussi in ingresso e in uscita dalla Regione che, a differenza dei rifiuti urbani, sono soggetti alle logiche e alle normative sul libero mercato e concorrenza.

La Sezione Regionale del Catasto Rifiuti di Arpa Piemonte ha infatti analizzato i dati e ha presentato in dettaglio i flussi di produzione e di gestione dei rifiuti speciali di questi ultimi anni, focalizzandosi in particolare sulla suddivisione in categorie come rifiuti da costruzione, demolizione, sanitari, elettrici e elettronici, veicoli e pneumatici inutilizzati. Ha quindi evidenziato come si tratti di una mole di circa 9,5 milioni di tonnellate, di cui il 91% di natura non pericolosa. In questo insieme si può vedere come il 47% sia composto da rifiuti inerti da costruzione e demolizione, mentre i rifiuti speciali si concentrano in particolare nell’area metropolitana di Torino soprattutto per ciò che concerne i rifiuti urbani e delle acque[1].

È interessante poi il dato che vede i rifiuti industriali in un numero cinque volte maggiore rispetto a quelli urbani, diligentemente raccolti nel Comune di Torino attraverso il metodo porta a porta. Il trattamento degli scarti industriali, però, non è regolato con la stessa premura e così finisce per rendere l’intera Regione disorganizzata e economicamente non profittevole. Il Piemonte, infatti, non è in grado di gestire una mole pari a 10,8 milioni di tonnellate di rifiuti industriali (delle quali soltanto 700mila sono etichettate come materiali pericolosi), mentre nel resto d’Europa, come in Germania e Danimarca, gli stessi finiscono per essere destinati nei termovalorizzatori altamente tecnologici che sono capaci di rendere un notevole apporto energetico in cambio di un risibile impatto ambientale.

L’unico sito attivo al momento è quello di Barricalla Spa (società in partnership tra Ambienthesis, Sereco e Finpiemonte), nell’area di Collegno, che però si appresta a finire il suo carico di assorbimento e a rendere l’esportazione del materiale pericoloso, purtroppo, l’unica soluzione logisticamente accettabile per la Regione.

Basta prendere come esempio la gestione dell’amianto, categorizzato come rifiuto pericoloso ma del quale sono tuttora in circolazione due milioni di metri cubi di coperture nel solo Piemonte, come indicato sul Piano Regionale. In questo caso è intervenuto addirittura il Ministro dell’Ambiente Sergio Costa, che ha dovuto incaricare l’ex procuratore di Torino Raffaele Guariniello a formare una task force specifica per occuparsi dell’emergenza[2].

Fanno riflettere, in tal senso, le parole di Alessandro Battaglino, presidente di Barricalla Spa, che ha messo in guardia come “fra tre, quattro anni, se non avremo nuove autorizzazioni per espanderci, noi chiudiamo. Continueremo a gestire l’impianto, ma, non ci sarà più spazio per altri rifiuti speciali. Qui abbiamo stoccato una parte dei rifiuti della nave Concordia, lo smaltimento dell’area Falck, e poi tanto amianto. Il tutto in completa sicurezza senza contaminazioni aeree o con le falde acquifere”. La salvaguardia dell’ambiente è un tema centrale nella mission dell’azienda, che si inserisce in pieno anche nell’ottima dell’economia circolare grazie al recupero di 1 megawattora di energia attraverso l’utilizzo dei pannelli solari, oltre che all’allevamento di colonie di api “a dimostrazione che è possibile una gestione sostenibile delle discariche”, come aggiunge sempre Battaglino.

Lo stesso presidente poi, nell’esporre il suo progetto di intervento per la Regione e il suo impegno nel contribuire a renderla un Ente più autosufficiente e, di conseguenza, ad arginare lo spreco di denaro pubblico, ha affermato come “nei prossimi mesi [si chiederà] il via libera alla Città Metropolitana per una possibile estensione del sito. In caso negativo chiuderemo e guarderemo ad altre province”. L’obiettivo, quindi, rimane quello di investire all’interno dei nostri territori per dotare ogni area d’Italia di una rete di strutture in grado di trattare adeguatamente e in maniera ecologia tutti gli scarti che vengono costantemente prodotti, e per questo motivo è sconcertante realizzare come su questo tema “purtroppo l’approccio è spesso ideologico. E si guarda alla discarica quasi come fosse una tana della malavita. Nei Paesi del Nord Europa invece si affronta la questione in modo semplice e con tecnologie avanzate. Io sono un sostenitore dell’economia circolare e del riciclo”. Questo perché “l’industria riutilizza buona parte dei suoi rifiuti ma c’è un 10% che va stoccato, non ci sono alternative”, come ha dichiarato lo stesso Battaglino, ricordando come “per rendere effettivo questo modello di economia circolare bisogna davvero chiudere il ‘cerchio’, rimuovendo tutte quelle barriere che ostacolano la realizzazione degli investimenti e promuovendo l’ambiente a fattore di competitività”, come opera, d’altronde, Barricalla, che nel solo 2018 ha generato utili per 1,6 milioni di euro[3].

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Mon, 8 Jul 2019 18:38:05 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/499/il-problema-dei-rifiuti-speciali-un-altra-emergenza-arginabile-grazie-a-nuovi-impianti mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Dalla Cina alla Turchia, ecco dove finisce la nostra plastica https://www.andreagrossi.net/post/498/dalla-cina-alla-turchia-ecco-dove-finisce-la-nostra-plastica

Dopo lo stop imposto dalla Cina dove finisce la plastica che non viene smaltita in Italia ed in altri Paesi occidentali? A questa domanda ha cercato di rispondere il nuovo report di Greenpeace  “Le rotte globali, e italiane, dei rifiuti in plastica”[1], pubblicato ad aprile. Nel 2018 le esportazioni mondiali sono sensibilmente calate raggiungendo la metà dei volumi rispetto al 2016.

Solo che hanno cambiato destinazione raggiungendo i Paesi del Sud-est asiatico, non dotati di normative ambientali particolarmente rigorose. Anche i rifiuti dell'Italia, uno dei principali esportatori mondiali, finiscono soprattutto in Malesia, Vietnam e Thailandia. Nel frattempo però, subito dopo la pesante restrizione di Pechino, anche questi Paesi hanno introdotto delle limitazioni alle importazioni. Così le esportazioni di rifiuti in plastica si sono dirette verso Indonesia e Turchia che oggi la fanno da padroni nell'importazione. «Dopo aver raggiunto un picco alla fine del 2016 – si legge nel report -  l'importazione cinese di rifiuti è cessata quasi completamente all'inizio del 2018, a causa di un divieto generalizzato che ha interessato anche Hong Kong, per lungo tempo hub d’importazione di rifiuti in plastica poi destinati in Cina. Dal momento in cui la Cina ha vietato l’import di rifiuti in plastica, nel corso del 2018 le esportazioni globali sono nettamente calate fino a raggiungere la metà dei volumi del 2016. Sul forte calo delle esportazioni globali ha inoltre influito la riduzione dei volumi di rifiuti in plastica in transito da Hong Kong per raggiungere altre nazioni del Sud-est asiatico nei primi mesi del 2018».

Nel 2018 i principali esportatori sono stati gli Usa (16,5 per cento delle esportazioni totali), il Giappone (15,3 per cento), la Germania (15,6 per cento), il Regno Unito (9,4 per cento) ed il Belgio (6,9 per cento). In questa particolare classifica l’Italia si piazza all’undicesimo posto con un contributo pari al 2,25 per cento di tutti i rifiuti in plastica esportati. Riguardo lo stesso periodo i primi 5 Paesi importatori sono risultati: Malesia (15,7 per cento delle importazioni totali), Thailandia (8,1 per cento), Vietnam (7,6 per cento), Hong Kong (6,8 per cento) e Stati Uniti (6,1 per cento). «L’Italia risulta comunque tra i principali esportatori di rifiuti plastici al mondo: solo nel 2018, abbiamo spedito all’estero poco meno di 200 mila tonnellate di scarti di plastica. Per avere un’idea chiara del nostro export, si tratta di un quantitativo pari a 445 Boeing 747 a pieno carico, passeggeri compresi.  197 mila tonnellate di plastica hanno varcato i confini italiani lo scorso anno, per un giro d’affari di 58,9 milioni di euro3. Un meccanismo che, fino ad una manciata di mesi fa, vedeva come partner privilegiato la Cina. Gran parte degli scarti plastici europei – e italiani - fino allo scorso anno, erano caricati su navi e diretti verso la Repubblica Popolare cinese. Contenitori, pellicole industriali e residui plastici di ogni sorta, finivano ad intasare magazzini cinesi per poi nella migliore delle ipotesi - essere riciclati. Un meccanismo che, poco più di un anno fa, si è interrotto bruscamente».

Secondo Eurostat, le esportazioni di rifiuti in plastica non sembrano destinate a diminuire, almeno nel breve periodo. Infatti, in media, tra il 2016 e il 2017 l'Italia ha esportato quasi 250 mila tonnellate all’anno. Dati che hanno trovato conferma nel 2018, con una lieve flessione rispetto ai quantitativi esportati (197 mila tonnellate) ma non rispetto al valore economico dell’export (addirittura aumentato del 9,5 per cento rispetto al 2016). Lo stop imposto dalla Cina ha messo in evidenza un aspetto piuttosto importante: l'Italia è fortemente carente di impianti di recupero e di riciclo. Esistono infatti numerosi impianti di piccole dimensioni (che trattano tra le 3 mila e le 5 mila tonnellate/annue), e non più di cinque impianti da 50 mila tonnellate. Un dato che dovrebbe fare seriamente riflettere sulle misure che il nostro Paese dovrebbe intraprendere per risolvere una vera e propria emergenza.

Andrea Grossi

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Mon, 1 Jul 2019 19:00:23 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/498/dalla-cina-alla-turchia-ecco-dove-finisce-la-nostra-plastica mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Discariche ormai in emergenza, servono nuovi impianti https://www.andreagrossi.net/post/497/discariche-ormai-in-emergenza-servono-nuovi-impianti

Nei prossimi due anni la capienza delle discariche sarà esaurita nel Nord Italia, tra meno di un anno accadrà in quelle del Centro Italia mentre è già emergenza in quelle del Sud. Per questo bisogna pensare ad altri tipi di interventi.  Il non edificante quadro è emerso nel Rapporto “Per una Strategia Nazionale dei rifiuti”[1], presentato ad aprile a Roma da FISE Assoambiente (Associazione delle imprese di igiene urbana, riciclo, recupero e smaltimento di rifiuti urbani e speciali ed attività di bonifica) nel corso di una giornata a  cui hanno preso parte i rappresentanti del mondo industriale, scientifico e associativo del settore, alla presenza anche di alcuni rappresentanti politici. Per poter raggiungere gli obiettivi europei sull'economia circolare bisogna fare ancora tanto. Viene infatti richiesta entro il 2035 la soglia del 65% nel riciclo effettivo e del  10% nel collocamento in discarica dei rifiuti urbani. Obiettivi che potranno essere raggiunti solo con il sensibile aumento della raccolta differenziata, portandolo all'80% e con una crescita di 4 milioni di tonnellate nella capacità di riciclo. Il tutto con il contemporaneo innalzamento al 25% della valorizzazione energetica dei rifiuti per chiudere il ciclo. Secondo Fise Assoambiente bisogna definire su scala nazionale una strategia complessiva per la gestione dei rifiuti nel lungo periodo in modo da armonizzare gli interventi pubblici con quelli delle aziende private. Per fare questo sono indispensabili nuovi investimenti per circa 10 miliardi in impianti di riciclo, recupero e smaltimento. Il Rapporto è entrato nel dettaglio delle ulteriori misure che servirebbero al nostro Paese:

 

limitazione di importazione ed esportazioni di rifiuti  che movimenta ogni anno 9,5 mln di tonnellate (circa 6 in entrata e 3,5 in uscita): una diseconomia che, per carenza di impianti, produce una perdita di potenziale di materia ed energia;

creazione di  un sistema di impianti  adeguato al fabbisogno italiano, con la realizzazione nei prossimi 16 anni di oltre 20 impianti per le principali filiere del riciclo, 22 impianti di di gestione anaerobica per il riciclo della frazione umida, 24 impianti di termovalorizzazione, 53 impianti di discarica per gestire i flussi dei rifiuti urbani e speciali;

blocco del cosiddetto “turismo dei rifiuti” all’interno dei confini nazionali, con particolare riferimento a quelli urbani urbani, movimentati da una Regione all’altra per carenza della necessaria impiantistica di smaltimento (soprattutto al Sud);

revisione della gestione delle discariche, concentrandosi solo su impianti moderni e sostenibili in cui destinare esclusivamente le frazioni residuali opportunamente trattate, considerata la scarsa autonomia italiana.

Lo studio ha messo inoltre in luce la necessità di sviluppare strumenti economici a sostegno dell'utilizzo dei materiali riciclati e per l’uso di sottoprodotti e materiali a sostegno di una legislazione più chiara sul cosiddetto “End of Waste”. Servirebbe infatti un quadro normativo chiaro per il settore che semplifichi le procedure di autorizzazione, spinga investimenti e competizione fra imprese, consentendo di realizzare tutti gli impianti necessari.

«Il nostro Paese - ha spiegato Chicco Testa, Presidente di FISE Assoambiente - necessita di una Strategia Nazionale di gestione dei rifiuti che, al pari di quella energetica, fornisca una visione nel medio-lungo periodo (almeno ventennale) migliorando le attuali performance.  Fare economia circolare significa disporre degli impianti di gestione dei rifiuti con capacità e dimensioni adeguate alla domanda. In Italia servono impianti di recupero (di materia e di energia) capaci non solo di sostenere il flusso crescente in particolare delle raccolte differenziate di rifiuti, ma anche di sopportare fasi di crisi dei mercati esteri. Servono anche impianti di smaltimento finale (discariche), capaci di gestire i rifiuti residuali quali gli scarti generati dal processo di riciclo e quelli che non possono essere avviati a recupero o a trattamenti».

Andrea Grossi

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Mon, 24 Jun 2019 17:24:39 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/497/discariche-ormai-in-emergenza-servono-nuovi-impianti mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Economia circolare pronta a trainare il Pil italiano https://www.andreagrossi.net/post/496/economia-circolare-pronta-a-trainare-il-pil-italiano

Il Pil italiano potrebbe essere letteralmente trascinato dal travolgente impatto che potrebbe avere  un ulteriore sviluppo dell'economia circolare.

Secondo il Rapporto nazionale 2019 sull’economia circolare elaborato da Ena e Circular economy network[1] (la rete promossa dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile, da 13 aziende e associazioni di impresa), in Italia per ogni chilo di risorsa consumata sono stati generati 3 euro di Pil contro una media europea di 2,24 e valori tra 2,3 e 3,6 in tutte le altre grandi economie europee.

Dal 2014, quando si registravano 3,24 euro/chilo, c’è stata tuttavia una piccola diminuzione nel 2018 in cui l’Italia ha conquistato un solo punto nell’indice di circolarità, mentre la Francia ne ha guadagnati 7 e la Spagna addirittura 13. Un ulteriore slancio italiano nell'economia circolare potrebbe essere davvero fondamentale considerato che le stime parlano di una crescita del Pil dello 0,7% e che dunque forse sarà necessaria una manovra correttiva.  Secondo il Centro studi di Unimpresa[2], infatti, il Pil italiano viene collocato in una posizione mediana rispetto alle previsioni aggiornate, fornite da organismi italiani e internazionali nelle ultime settimane. Le stime del governo avevano indicato  una crescita dell'1% e dunque potrebbe esserci il rischio di una manovra correttiva tra i quattro ed i cinque miliardi. Visto che si tratta di stime e previsioni, riepiloghiamo quelle che erano state le precedenti stime sull'aumento del Pil italiano. 

L’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) aveva indicato lo 0,4%, il Fondo monetario internazionale (Fmi) lo 0,6%, la Commissione Ue lo 0,2%, l’Ocse l’1,0%, la Banca d’Italia lo 0,6%, mentre per le agenzie di rating Standard e Poor’s e Fitch il Pil dovrebbe crescere rispettivamente dello 0,7% e dell’1,%. Con la legge di bilancio, il governo italiano ha indicato l’1,0%. La revisione al ribasso delle stime del Pil potrebbe portare ad un possibile intervento sui conti pubblici. L'Istat, ha rivisto in crescita la stima ma ha confermato la recessione tecnica. Nel quarto trimestre 2018 il Pil è sceso dello 0,1% su base congiunturale: lo ha rilevato l'Istat che ha rivisto al rialzo la stima di fine gennaio (-0,2%).

Si conferma comunque la recessione tecnica nonostante questa revisione del dato. In termini tendenziali,rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente la variazione del Prodotto interno lordo è risultata nulla rispetto a una stima di +0,1%. La variazione congiunturale diffusa il 31 gennaio 2019 era di -0,2% mentre quella tendenziale era pari a +0,1%.  «Nel 2018 – ha rilevato l'Istat[3] -  il Pil ai prezzi di mercato è stato pari a 1.753.949 milioni di euro correnti, con un aumento dell’1,7% rispetto all’anno precedente. In volume il Pil è aumentato dello 0,9%. Dal lato della domanda interna nel 2018 si registra, in termini di volume, una crescita del 3,4% degli investimenti fissi lordi e dello 0,5% dei consumi finali nazionali. Per quel che riguarda i flussi con l’estero, le esportazioni di beni e servizi sono aumentate dell’1,9% e le importazioni del 2,3%. La domanda interna ha contribuito positivamente alla crescita del Pil per 1,0 punti percentuali (+0,9 al lordo della variazione delle scorte) e la domanda estera netta negativamente, per 0,1 punti. A livello settoriale, il valore aggiunto ha registrato aumenti in volume nelle costruzioni (+1,7%), nell’industria in senso stretto (+1,8%), nell’agricoltura, silvicoltura e pesca (+0,9%) e nelle attività dei servizi (+0,7%)». 

Alla luce di tutto questo si comprende ancora meglio come investendo nell'economia circolare ancora di più potrebbe aumentare anche la ricchezza prodotta in Italia facendo allo stesso modo bene all'ambiente. Secondo una stima del Parlamento Europeo l'economia circolare potrebbe far aumentare il Pil addirittura del 7% entro il 2035 con una riduzione media annua delle emissioni di CO2 pari a 617 milioni di tonnellate.

E l'Italia, malgrado tutto, potrebbe essere in prima fila visto che è uno dei Paesi europei con la più alta percentuale di rifiuti destinati al riciclo, soprattutto in campo industriale ed anche uno di quegli stati che utilizza più materia seconda, anche tramite importazioni, rispetto al consumo totale. Un dato che già emergeva nel 2014 quando Eurostat poneva l’Italia tra i Paesi europei per la più alta percentuale di riciclo sulla totalità dei rifiuti (urbani, industriali). Ben il 76,9% di rifiuti totali sono avviati a riciclo con una incidenza più che doppia rispetto alla media europea, ferma al 37%. Per dare la spinta decisiva sembra cruciale arrivare all'End of Waste facendo in modo che gli innovativi progetti industriali in attesa di partire possano diventare realtà considerato che il  settore del riciclo riguarda oltre 7 mila impianti industriali in Italia.

Andrea Grossi

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Thu, 13 Jun 2019 18:21:15 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/496/economia-circolare-pronta-a-trainare-il-pil-italiano mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Copenaghen, esempio tra i paesi nordici sulla gestione dei rifiuti https://www.andreagrossi.net/post/495/copenaghen-esempio-tra-i-paesi-nordici-sulla-gestione-dei-rifiuti

Il Nord Europa ha fatto del “waste to energy” la marca distintiva del proprio sistema di gestione dei rifiuti. Lì sono oggi in funzione impianti in grado di bruciare oltre 550 chili di rifiuti l’anno per abitante, nel resto della moderna Europa ci sono impianti pari a 250 chili per abitante, in Italia, invece, c’è disponibilità di impianti per 104 chili per abitante: il resto finisce nella migliore delle ipotesi in discariche controllate, alla peggio dispersa in siti abusivi. Paese che vai usanza che trovi, chi da una parte vede lotte quotidiane per bloccare la costruzione di nuovi inceneritori e si interroga se continuare a far funzionare i termovalorizzatori già esistenti, chi dall’altra sui rifiuti ci finisce addirittura per sciare, letteralmente.

A Copenaghen, proprio al centro della capitale danese, sta nascendo una complessa opera ingegneristica che, oltre al moderno ed innovativo aspetto architettonico, si prospetta diventare lo stato dell’arte attuale della tecnologia Waste-to-Energy, sia in termini di prestazioni energetiche sia ambientali: obiettivo per i danesi diventare la prima città al mondo ad emissioni zero entro il 2025. Fuori dagli schemi comuni, l’Amager Bakke, firmato dall’architetto danese Bjarke Ingels e dal costo di 660 milioni di dollari, una volta ultimato si distinguerà per molti motivi, non ultimo il fatto che rivendicherà la prima pista da sci della città. Soprattutto, sarà uno degli impianti di termovalorizzazione tecnologicamente  più avanzati al mondo e capace di ridurre le emissioni di CO2 della città del 99,5 per cento rispetto al 2005. Qui, grazie a una filtrazione catalitica che non è mai stata utilizzata prima in Danimarca, l’incenerimento è quasi privo di inquinamento. Quasi poiché, come dice la stessa azienda che ha fornito il sistema di alimentazione del forno e le tecnologie di depurazione dei fumi, le emissioni pur essendo ottimizzate, vedranno comunque dal camino uscire monossido di carbonio, ammoniaca, carbonio organico e ossidi di azoto oltre al vapore acqueo come hanno scritto diversi media italiani. Rimane il fatto che l’inquinamento presente è qui minimo, specie se confrontato con altre fonti di inquinamento costante. Citando alcuni numeri, l’impianto smaltisce circa 400.000 tonnellate di rifiuti prodotti annualmente da oltre 500.000 abitanti e da almeno 46.000 aziende e rifornisce un minimo di 50.000 famiglie con elettricità e 120.000 famiglie con teleriscaldamento. Per avere un termine di paragone, l’impianto A2A di Brescia, il più grande d’Italia con oltre 700mila tonnellate incenerite nel 2017, produce energia elettrica pari al fabbisogno di oltre 200mila famiglie e calore per oltre 60mila appartamenti.

Nel Paese danese esiste poi il problema opposto a quello italiano: una sovraccapacità di incenerimento, con 28 impianti attivi per meno di 6 milioni di abitanti. L’incenerimento, seppur a ridotte emissioni e alti livelli di accettazione da parte dei cittadini, qui infatti non si ferma alla gestione dei rifiuti, ma è anche una strategia di sviluppo industriale. Lo stesso Copenhill è stato sovradimensionato per ottenere dei benefici in termini di efficienza e ora come gli altri 27 impianti cercherà rifiuti anche sui mercati stranieri. Tra il 2013 e il 2015 l’importazione di rifiuti per l’incenerimento è, infatti, passata da 160 mila a 350 mila tonnellate che rappresentano oggi l’11 per cento della spazzatura bruciata nel Paese. Non tutti i rifiuti trattati dall’inceneritore di Copenhagen, soprannominato Copenhill, diventano energia: una parte del recupero sarà sotto forma di materie riciclabili, come i metalli che vengono estratti dalle ceneri e le stesse ceneri, che diventano inerti da utilizzare per produrre il calcestruzzo. Con un progetto che prevede poi il rilascio nell’aria di Copenhagen di anelli di fumo ogni volta che verranno raggiunti i 250 chili di anidride carbonica rilasciata nell’atmosfera, si lancia così un monito per gli abitanti di una città che si propone di diventare la prima al mondo a produrre emissioni zero.

La vera trovata di Bjarke Ingels, che ha vinto il concorso di progettazione nel 2011, è stata quella di trasformare un’architettura meramente funzionale in un servizio di intrattenimento per una città situata in un Paese dalla morfologia pianeggiante. Così questo edificio innovativo, con la sua geometria di pannelli argentati in alluminio e vetro, modificherà non solo lo skyline di Copenaghen, ma ridefinirà al contempo la sostenibilità urbana a livello globale. La vera innovazione non è solo tecnologica , ma anche sociale, dal momento che vede una stretta connessione tra istituzioni locali, cittadini e imprese, con il supporto della ricerca, con la finalizzazione dell’interesse comune che supera quello individuale o di qualche gruppo. Visto che si parla poi di una infrastruttura al servizio di tutta la collettività, ma per la quale è stato necessario un investimento ingente con un tempo di ritorno di trent’anni, l’impianto è stato interamente finanziato con fondi pubblici. Uno dei motivi per cui l’impianto ha una posizione centrale nella città, a 13 minuti dall’aeroporto e vicino all’Opera House, è legato al fatto che l’amministrazione stia puntando molto al turismo: l’introito di Copenhill e delle sue attrazioni dovrebbe crescere di 6,5 miliardi di dollari l’anno, cifra che lo renderebbe così economicamente redditizio dopo il forte investimento iniziale. Il nuovo edificio punta così a diventare la principale attrazione turistica della capitale danese, specialmente grazie ad imponente pista da sci lunga ben 600 metri ed a una parete artificiale di arrampicata di 27 metri, un ristorante con servizio completo e un bar après-ski circondato da sentieri alberati. Copenhill punta ad attirare circa 300 mila visitatori l’anno, tra cui circa 65 mila sciatori corteggiati dalla novità di una montagna in un paese altrimenti piatto. Ed è giusto ricordare anche che saranno italiane alcune delle tecnologie utilizzate al fine di consentire l’uso sportivo della struttura: la pista da sci è realizzata, infatti, dalla bergamasca Neveplast con plastica riciclabile al cento per cento.

Andrea Grossi

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Fri, 7 Jun 2019 19:10:32 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/495/copenaghen-esempio-tra-i-paesi-nordici-sulla-gestione-dei-rifiuti mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Anche l’industria si adegua al nuovo paradigma di economia circolare https://www.andreagrossi.net/post/494/anche-l-industria-si-adegua-al-nuovo-paradigma-di-economia-circolare

Come rappresentante del Gruppo Green Holding sono ben consapevole di quanto il paradigma socio-economico attuale sia in una fase di profonda trasformazione e reinterpretazione, nei confronti di quella che viene definita economia circolare, attraverso una decisiva virata verso l'adozione di una cultura del recupero.

Prendiamo ad esempio il settore edile: secondo il rapporto di sostenibilità di Aitec nel solo 2017 ha visto il recupero di oltre 1,84 milioni di tonnellate di materie prime residuali, per un investimento triennale di 87,5 milioni in tecnologie innovative. E Aitec, Associazione delle Aziende Italiane Produttrici di Cemento, una sezione di Confindustria Federbeton, rappresenta nazionalmente il 90% della produzione cementizia e il 97% di quella di clinker (sempre secondo l'analisi del Rapporto di Sostenibilità 2015-2017). Questo rende l'intera filiera di produzione del cemento in Italia un notevole fattore d'impatto alla transizione nazionale verso un’industria mossa da principi di circolarità.

L’Economia Circolare, applicata alla filiera del cemento e del calcestruzzo, è il miglior veicolo per contribuire al contenimento dei cambiamenti climatici. L’attuazione di azioni volte al recupero di materia, al recupero energetico, all’ottimizzazione dei processi produttivi e al dialogo con i territori, sono fondamentali per realizzare un virtuoso modello economico circolare. Ogni azione compiuta in questa direzione oltre ad essere sostenibile ambientalmente e socialmente, può generare valore economico. Ecco dunque che l’economia circolare diventa un fattore di competitività determinante, oltreché distintivo”, ha quindi confermato Antonio Buzzi, il Coordinatore della Commissione Ambiente ed Economia Circolare di Federbeton Confindustria.

Sulla base dell'analisi delle aziende affiliate a Aitec, infatti, si è appurato che le 19 imprese cementiere operative (con 59 impianti attivi di produzione) mantengono un andamento del +0,3% da qualche anno, con una produzione scadenzata di 19,3 milioni di tonnellate di cemento. Attraverso il forte investimento in tecnologie innovative del triennio, quindi, hanno potuto re-immettere materiali recuperati all'interno del flusso produttivo così da renderli risorse riutilizzabili, aumentando allo stesso tempo il tasso di sostituzione dei combustibili fossili e il recupero di rifiuti urbani e industriali. In questo modo hanno contribuito anche all'assorbimento di una parte della mole di raccolta urbana e industriale differenziata.

I risultati sono stati sorprendenti: quasi 360.000 tonnellate di combustibili alternativi sono stati reindirizzati dalla discarica o da recuperi energetici alternativi, contribuendo al passaggio della sostituzione calorica necessaria dal 14,9% al 17,3% del 2017. Certamente si tratta di un processo ancora lungo, che nonostante il suo sforzo è anni-luce lontano dai valori delle altre economie Europee come la Germania con il suo 66% o l'Austria che arriva addirittura al 76% (per una media continentale del 40%).

Si è comunque registrato un +1,2% della sostituzione delle materie prime naturali con quelle residuali, portando l'Italia al recupero complessivo di oltre 1,84 milioni di tonnellate di materie prime recuperate per un tasso complessivo del 7,4% (a fronte di una media europea del solo 4,4%). Un altro traguardo, raggiunto grazie all'utilizzo di combustibili in biomassa al posto di quelli fossili, è stato il drastico abbattimento delle emissioni (-12,4% di CO2, -29,4% di polveri PM10, -29,7% di ossidi di azoto e addirittura -32,6% di ossidi di zolfo)[1]

Una gestione virtuosa, dunque, che può essere paragonabile a quella che è la nostra visione del settore dei rifiuti. "Nell’attività svolta da [...] Green Holding si fanno continuamente passi avanti, in ottica di economia circolare, sia nel trattamento e smaltimento di rifiuti industriali pericolosi e non pericolosi, con impianti tra i più importanti in Italia, sia nell’attività di bonifica, dove sempre più si separano i materiali inquinati da quelli recuperabili in loco al fine di limitare l’uso delle discariche e l’impatto sull’ambiente circostante ai cantieri" affermava in una recente intervista il Presidente della Holding Alberto Azario[2].

Quello che serve, allo stato attuale, è una maggiore comunicazione di quanto si fa per l'ambiente e di come gli obiettivi imprenditoriali possono e devono inserirsi all'interno di questo nuovo paradigma circolare, così da rendere tutti gli stkeholders e, in particolare, gli abitanti dei territori in cui operano le industrie, consapevoli di cosa vuol dire agire in maniera virtuosa e rispettare l'ambiente.

E' quanto è accaduto lo scorso 29 marzo allo Spazio Mediterraneo, nei Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo, dove Legambiente Sicilia con la presenza del presidente nazionale Stefano Ciafani e del governatore della Sicilia Nello Musumeci hanno promosso l'Ecoforum Regionale su Rifiuti ed Economia Circolare. La giornata è consistita in focus di settore, confronti e approfondimenti su uno dei filoni più interessati (e attenzionati) circa il tema del recupero di risorse. Il titolo dell'iniziativa, poi, riportava Rifiuti zero, impianti mille, a sollevare un altro problema del nostro Paese e cioè la preoccupante mancanza di siti dove lavorare quanto virtuosamente riusciamo a recuperare. In particolar modo in Sicilia, dove ha avuto luogo l'evento, si è assistito ad un netto salto in avanti (dal 18% al 35%) della raccolta differenziata che però, senza un adeguato numero di impianti, non si è convertito in una conseguente riduzione in bolletta[3].

Un altro esempio, che ci riguarda da vicino, ci è dato dall'incontro avvenuto il 26 marzo al Centro Congressi Unione Industriale di Torino, dove per il trentennale di Barricalla Spa si è parlato dell'opportunità insita nel settore dei rifiuti, sulle modalità con cui questi vengono trattati e smaltiti, sulla differenza esistente tra gli scarti urbani e, invece, quelli speciali. Ma in particolare si è parlato di come possiamo generare valore da ciò che produciamo di scarto, e di come, all'interno del paradigma dell'economia circolare, si debba prendere in considerazione il riutilizzo programmato dei materiali.

L'incontro, dal titolo Il tesoro nascosto. L'invisibile valore dei rifiuti, è stato presieduto dal presidente di Barricalla Alessandro Battaglino, da Maurizio Onofrio, docente del Politecnico di Torino, Dipartimento Ingegneria dell'Ambiente, del Territorio e delle Infrastrutture, da Roberto Ronco, direttore Direzione Ambiente, Tutela e Governo del Territorio della Regione Piemonte ed è stato moderato dal giornalista e divulgatore scientifico Andrea Vico, ed è per questo un esempio concreto di come i migliori risultati si possano raggiungere soltanto attraverso un dialogo costante tra le imprese, le amministrazioni locali e la comunità scientifica e civile.

Andrea Grossi

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Tue, 28 May 2019 17:47:59 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/494/anche-l-industria-si-adegua-al-nuovo-paradigma-di-economia-circolare mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Italia sopra la media europea per il riciclo ma mancano gli investimenti nell’economia circolare https://www.andreagrossi.net/post/493/italia-sopra-la-media-europea-per-il-riciclo-ma-mancano-gli-investimenti-nell-economia-circolare

Avanti sul riciclo dei rifiuti, indietro sul fronte degli investimenti. Questa la principale sintesi della presentazione in Senato dei primi risultati della Piattaforma italiana per l'economia circolare (ICESP)[1], network di 75 fra istituzioni e aziende nato nel maggio scorso e guidato dall'Enea (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile).

L'Italia in questo momento storico si trova purtroppo ancora molto lontana da Germania, Francia e Gran Bretagna negli investimenti sull'economia circolare. E nonostante questo il nostro Paese riesce comunque ad ottenere molto sul fronte del riciclo e non solo. Figuriamoci cosa otterrebbe con investimenti in linea con gli altri paesi europei. Secondo la Piattaforma, l'Italia è carente anche sul fronte normativo manca infatti una legge che indichi come debbano essere riutilizzati i materiali riciclati. Da una parte si sussidiano attività green e dall'altra si forniscono sussidi che si rivelano dannosi per l'ambiente.  «In particolare sarebbe utile avere un'applicazione più efficace delle norme sull’end of waste – ha spiegato Roberto Morabito, presidente ICESP e responsabile del Dipartimento Sostenibilità dei sistemi produttivi e territoriali dell’ENEA.-  in grado di avviare il  mercato di una vasta gamma di materie prime seconde, in tempi certi e al passo con le esigenze del sistema paese. Inoltre, sarebbe necessario rendere l’applicazione della disciplina del sottoprodotto certa e uniforme sul territorio nazionale, in maniera tale da consentire l’adozione di pratiche di simbiosi industriale come normali pratiche di gestione e valorizzazione degli scarti; simbiosi industriale che peraltro, si configura come un'efficace strategia per la prevenzione della produzione di rifiuti. Nel consumo di materiali riciclati siamo un gradino più in alto di Francia e Germania mentre per capacità di riciclare i rifiuti solidi urbani siamo più su di Francia e alla pari con il Regno Unito. La percentuale di riciclo dei rifiuti in Italia è del 67% contro il 55% della media europea; anche sul riciclo dei rifiuti da imballaggio siamo ben oltre la media Ue, in particolare nel caso dei rifiuti di legno ci attestiamo al 60% contro il 40%. Molto buona anche la percentuale di addetti nel settore dell’economia circolare rispetto al totale degli occupati in Italia, che si attesta al 2,05% contro l’1,71%. In Europa siamo quindi sopra la media per indici di riciclo di tutte le tipologie di rifiuti, ad eccezione di quelli elettrici ed elettronici dove siamo sotto».

Nella piattaforma sono stati coinvolte circa 80 fra istituzioni e aziende di rilievo nazionale e 60 buone pratiche elaborate da 6 gruppi di lavoro su 6 tematiche trasversali: dal riciclo dei materiali ai  prodotti da materiali secondari, dalla sharing economy ai modelli di gestione. Ora saranno condivise con la piattaforma  europea ECESP che finora ha raccolto 184 buone pratiche di cui 24 italiane. I sei gruppi di lavoro della piattaforma ICESP sono coordinati da Università di Bologna, Regione Puglia e CNA, Ministero dell’Ambiente e Ministero dello Sviluppo Economico, ENEL e Intesa Sanpaolo Innovation Center, Regione Puglia e Unioncamere. Giova ricordare che la Piattaforma è nata a seguito della scelta da parte della Commissione europea di includere ENEA nel Gruppo di Coordinamento della piattaforma europea ECESP in qualità di rappresentante del mondo della ricerca. Come unico membro italiano è stata invitata a svolgere il ruolo di hub nazionale per l’economia circolare, agendo come interfaccia tra il sistema Italia ed ECESP. Sulla base di questo incarico ha promosso la realizzazione della piattaforma ICESP, che ha la finalità di creare un punto di convergenza nazionale su iniziative, esperienze, criticità, prospettive e aspettative legate all'economia circolare, che il sistema Italia vuole e può rappresentare in Europa con un’unica voce, promuovendo il modello italiano di economia circolare.

Non resta che augurarci che questa Piattaforma possa spingere il Governo a favorire finalmente quegli investimenti nel settore dei rifiuti per dotare l'Italia di quegli impianti di cui è carente in modo da risolvere una volta per tutte l'emergenza e colmare il gap con gli altri paesi.

Andrea Grossi

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Wed, 22 May 2019 17:37:32 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/493/italia-sopra-la-media-europea-per-il-riciclo-ma-mancano-gli-investimenti-nell-economia-circolare mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Cresce la raccolta differenziata ma troppe regioni sono ancora lontane dagli obiettivi europei https://www.andreagrossi.net/post/492/cresce-la-raccolta-differenziata-ma-troppe-regioni-sono-ancora-lontane-dagli-obiettivi-europei

Ha superato la soglia del 55% la raccolta differenziata in Italia nel 2017. Lo certifica il rapporto annuale del Sistema Nazionale per la protezione Ambientale (SNPA) composto dalle Arpa di ogni regione e dall'Ispra. Il rapporto è stato presentato nelle scorse settimane a Roma ed ha attestato una raccolta differenziata del 55,5%, attestandosi in termini assoluti a 29,6 milioni di tonnellate con una riduzione dell'1,8% rispetto al 2016 (534 mila tonnellate in meno). Prima di addentrarci nel dettaglio di questa importante tendenza, analizziamo anche la parte del rapporto che si occupa in particolare della produzione dei rifiuti in Italia. «Nel 2017, la produzione nazionale dei rifiuti urbani si attesta a 29,6 milioni di tonnellate, facendo rilevare una riduzione dell’1,8% rispetto al 2016 (-534mila tonnellate). Dopo l’aumento riscontrato tra il 2015 e il 2016,sul quale aveva peraltro anche influito il cambiamento della metodologia di calcolo (inclusione nella quota degli RU dei rifiuti inerti derivanti da piccoli  interventi di manutenzione delle abitazioni), si rileva dunque una nuova contrazione della produzione. Tra il 2006 e il 2010 la produzione si è mantenuta costantemente al disopra dei 32 milioni di tonnellate, attestandosi successivamente, a seguito del brusco calo del biennio 2011-2012 (concomitante con la contrazione dei valori del prodotto interno lordo e dei consumi delle famiglie), su valori quasi sempre inferiori a 30 milioni di tonnellate (solo nel 2016 il quantitativo si è collocato al di sopra di tale soglia). I maggiori valori di produzione pro capite, con 642 chilogrammi per abitante per anno, si rilevano per l’Emilia-Romagna, il cui dato risulta comunque in calo dell’1,7% rispetto al 2016. Segue la Toscana, il cui pro capite si attesta a 600 kg per abitante per anno con (- 2,6% rispetto al 2016)». Le notizie positive, come visto, arrivano soprattutto sul fronte della raccolta differenziata che occupa uno spazio di rilievo all'interno del corposo rapporto SNPA. «Nel 2017, la percentuale di raccolta differenziata, determinata secondo la metodologia prevista dal DM 26 maggio 2016, è pari al 55,5% della produzione nazionale. In valore assoluto, la raccolta differenziata si attesta a circa 16,4 milioni di tonnellate, aumentando di poco più di 600 mila tonnellate rispetto al 2016. Un contributo rilevante all’aumento della percentuale è, quindi, ascrivibile alla riduzione della produzione del rifiuto urbano indifferenziato, -1,1milioni di tonnellate tra il 2016 e il 2017. Si segnala che il dato di raccolta differenziata ricomprende, laddove disponibili, i quantitativi di rifiuti organici destinati a compostaggio domestico, pari, nel 2017, a poco meno di 270 mila tonnellate. Nel 2017, la più alta percentuale di raccolta differenziata è conseguita dalla regione Veneto, con il 73,6%,seguita da Trentino Alto Adige, con il 71,6%, Lombardia, con il 69,6% e Friuli Venezia Giulia, con il 65,5%. Tutte queste regioni superano, pertanto, l’obiettivo del 65% fissato dalla normativa per il 2012. Si collocano al disopra del 60% di raccolta differenziata  l’Emilia-Romagna (63,8%), le Marche (63,2%), la Sardegna (63,1%), l’Umbria (61,7%) e la Valle d’Aosta (61,1%), e al di sopra del 55% (valore medio nazionale) il Piemonte (59,3%) e l’Abruzzo (56%). Toscana e Campania fanno rilevare percentuali di raccolta rispettivamente pari al 53,9% e 52,8%. Nel complesso, pertanto, sono 13 le regioni che raccolgono in maniera differenziata oltre la metà dei rifiuti urbani annualmente prodotti. La Liguria fa registrare una percentuale del 48,8%, il Lazio del 45,5% e la Basilicata, con una crescita di oltre 6 punti rispetto al 2016, del 45,3%. Superiore al 40% è la percentuale della Puglia (40,4%, +6 punti rispetto al precedente anno) e prossima a tale valore quella della Calabria (39,7%, +6,4 punti). Il Molise supera per la prima volta la soglia del 30%, attestandosi al 30,7%, e la Sicilia quella del 20%, con un tasso di raccolta del 21,7%. Per quest’ultima regione, le cui percentuali sono ancora lontane dagli obiettivi della normativa, si rileva una crescita di 6,3 punti rispetto alla percentuale del 2016 (15,4%)».

La direttiva quadro sui rifiuti 2008/98/CE, ricorda il rapporto, affianca agli obiettivi di raccolta previsti dalla normativa italiana target di preparazione per il riutilizzo e riciclaggio. Nel caso dei rifiuti urbani, la direttiva quadro prevede che, entro il 2020, la preparazione per il riutilizzo e il riciclaggio di rifiuti, quali, come minimo, carta, metalli, plastica e vetro provenienti dai nuclei domestici e, possibilmente, di altra origine, nella misura in cui tali flussi di rifiuti siano simili a quelli domestici, siano aumentatati complessivamente almeno al 50% in termini di peso. La direttiva quadro è stata ampiamente modificata dalla direttiva 2018/851/UE, che ha aggiunto ulteriori obiettivi perla preparazione per il riutilizzo e il riciclaggio, da conseguirsi entro il 2025 (55%), 2030 (60%) e 2035 (65%)

Andrea Grossi

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Fri, 17 May 2019 17:43:30 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/492/cresce-la-raccolta-differenziata-ma-troppe-regioni-sono-ancora-lontane-dagli-obiettivi-europei mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Hyperloop, pronto a partire a Dubai il treno più veloce del mondo https://www.andreagrossi.net/post/491/hyperloop-pronto-a-partire-a-dubai-il-treno-piu-veloce-del-mondo

Dubai sempre più nel futuro. Oltre ai grandi progetti in campo di sostenibilità ambientale, gli Emirati sono pronti a lanciare nel 2020 l'Hyperloop[1], il treno più veloce al mondo in grado di collegare in soli dodici minuti Dubai con AbuDhabi. Le due città sono distanti circa 140 chilometri ed oggi serve circa un'ora e mezzo di tempo per lo stesso tragitto. Il nuovo treno avrà l'incredibile velocità di 1200 chilometri orari: un treno che sarà in grado di fare 5000 corse all'ora. Il primo prototipo venne presentato a Dubai durante l'Innovation Week dello scorso anno: nessun finestrino e vagoni ultramoderni caratterizzano Hyperloop. Quelle che in italiano si chiamano prima e seconda classe, avranno una denominazione diversa. Gold e Silver. Le differenze risiedono nel modello di poltrona, in pelle e decisamente più comode quelle Gold dove i posti sono anche numerati con una maggiore privacy. Le poltrono sono state disegnate addirittura dalla Bmw con tanto di schermi installati per lo svago dei viaggiatori. Rispetto al prototipo nel frattempo sono state introdotte altre migliorie.  Il principio alla base di Hyperloop, è quello della levitazione magnetica in tunnel sottovuoto.  «Per raggiungere andature da jet militare – spiega Lorenzo Centenari, nel blog specialistico Motorsport[2] -  la locomotiva del futuro viaggerà all'interno di tunnel dove verrà riprodotto un vuoto d'aria spinto e parmanente, neutralizzando così la resistenza aerodinamica e proiettando il mezzo (alimentato da motori ad induzione e compressori d'aria) a velocità altrimenti inimmaginabili».

Grazie a dei speciali pannelli solari Hyperloop sarebbe in grado di produrre più elettricità di quanto ne consumi. Il treno sarà lanciato durante l'Expo i Dubai, esposizione universale al via il 20 ottobre 2020. Il tema di questa edizione sarà “Connecting Minds, Creating the Future”, uno slogan che sembra calzare a pennello per Hyperloop. Se un treno del genere fosse disponibile in Italia tra Roma e Milano occorrerebbero soltanto 25 minuti di viaggio. «È stato un sogno inverosimile, ma siamo tutti eccitati ora che è sta diventando realtà – ha commentato Bibop Gresta, presidente di Hyperloop Transportation Technologies[3] - La capsula è stata assemblata e ottimizzata a Tolosa, prima di essere utilizzata negli Emirati con l'obiettivo di collegare Abu Dhabi ad Al Ain e Dubai a velocità senza precedenti, in modo sicuro, efficiente e sostenibile. Hyperloop può diventare rapidamente redditizio e presenta la capacità di costruire un sistema di trasporto di massa che non richiederebbe sussidi governativi. Quando lo costruisci nel deserto, è diverso dal costruirlo in Svizzera, ma la seconda domanda che dobbiamo porre è quanto tempo ci vuole per recuperare l'investimento? Questa è una domanda d'attualità, perché nessun sistema di trasporto  recupera i suoi investimenti e ha sempre bisogno di sussidi. Ma in Hyprloop, possiamo recuperare l'investimento in 8 o 15 anni, si pagherà da solo e quindi genererà profitti per il paese, quindi non è solo veloce ma anche molto efficiente: un sistema più semplice, più leggero e meno energivoro.  Nelle regioni in cui le infrastrutture stradali e ferroviarie scarseggiano, Hyperloop può rappresentare un salto nella tecnologia dal XX al XXI secolo. Nelle regioni con infrastrutture sviluppate, Hyperloop può facilmente  integrare le reti stradali e ferroviarie attuali e future». Rassicurazioni sono arrivate sul fronte della sicurezza: «Hyperloop si basa principalmente su piloni, utilizzando le migliori pratiche dell'ingegneria civile, tra cui la progettazione sismica e la capacità di resistere all'espansione termica, è completamente automatizzato con tecnologie avanzate che richiedono solo il monitoraggio da parte degli esseri umani Il sistema è alimentato elettricamente, senza necessità di carburante a bordo ed è protetto dall'ambiente. Abbiamo sviluppato piani di emergenza su più livelli e procedure con sistemi di fuga ridondanti in caso di incidenti. Il sistema di Hyperloop è stato ritenuto"fattibile e assicurabile"dalla più grande compagnia di riassicurazione al mondo, Munich RE»

Andrea Grossi

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Thu, 2 May 2019 17:43:20 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/491/hyperloop-pronto-a-partire-a-dubai-il-treno-piu-veloce-del-mondo mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Rifiuti organici, mancano gli impianti al centro-sud https://www.andreagrossi.net/post/490/rifiuti-organici-mancano-gli-impianti-al-centro-sud

Gli impianti per il trattamento dei rifiuti organici in Italia non mancano e questo al momento non rappresenta un problema. C'è però da dire che si concentrano soprattutto nel Nord Italia e questo squilibrio sta costringendo Centro e Sud Italia a trasferire i propri rifiuti organici nelle regioni settentrionali con costi economici ed ambientali notevoli. Questo lo spaccato che emerge dalle parole di Alessandro Canovai, direttore del Consorzio Italiano compostatori[1]. Per cercare di risolvere questo problema è in itinere un dialogo ed un percorso strategico con il ministero dell'Ambiente per definire le aree prive degli impianti e sulle quali intervenire con una certa tempestività. «Bisogna continuare a lavorare soprattutto nelle regioni del Centro e del Sud per raggiungere l’obiettivo di 9.150.000 tonnellate di rifiuto organico raccolte al 2025, ovvero 150 kg/ab/anno. Sicuramente una spinta arriverà grazie al recepimento del Pacchetto sull’Economia Circolare approvato dalla Unione Europea nel giugno 2018 e che ha imposto come obbligatoria la raccolta differenziata del rifiuto organico entro il 2023».

Si è passati da 326 a 338 strutture che, complessivamente, sono in grado di trattare circa 7,4 milioni di tonnellate (+4% rispetto al 2017) di rifiuti. Sono 6,6 milioni le tonnellate di rifiuti organici (umido e verde) raccolti con la differenziata in Italia nel 2017, secondo l'analisi del Cic basata sul Rapporto Rifiuti Ispra del 2018. L'organico si conferma la frazione più importante della differenziata, il 40,3%. «In generale – spiega Massimo Centemero, direttore del CIC –  c’è stato un calo nella produzione dei rifiuti in Italia, scesi a 29,6 milioni di tonnellate (- 1,7% rispetto all’anno precedente) e la raccolta differenziata ha raggiunto una percentuale del 55,5%. Il dato procapite di rifiuto organico a livello nazionale passa, infatti, da 107 a 108 con una differenza sostanziale tra il Centro Nord e il Sud. Se nelle regioni settentrionali la raccolta del rifiuto organico si attesta a 127 kg/abitante per anno, in quelle centrali si scende a 114 kg/abitante mentre al sud ci si ferma a 83 kg/abitante per anno dal Sud. È la Lombardia, nonostante una leggera flessione rispetto al 2017, a confermarsi al primo posto per quantità di frazione organica raccolta con 1,2 milioni di tonnellate annue. Seguono poi il Veneto con 764.000 tonnellate e l’Emilia Romagna (708.000 t), seguita a breve distanza dalla Campania (678.000 t). Interessanti i dati registrati nel Lazio (532.000 t) e in Sicilia (208.000 t), dove la raccolta della frazione organica è aumentata rispettivamente di 27.000 t e 67.000 t.». Secondo gli ultimi dati disponibili nel 2017 sono state prodotte quasi 2 milioni di tonnellate di compost, il 64% da compostaggio e il restante 36% da digestione anaerobica e successivo compostaggio, che hanno contribuito a stoccare nel terreno 600.000 tonnellate di sostanza organica risparmiando 3,8 milioni di tonnellate di CO2  rispetto al trasferimento discarica. Sempre nel 2017 è stato trattato più del 50% dell’umido raccolto in forma differenziata.   «Il trattamento delle frazioni organiche selezionate con la digestione anaerobica – ha spiegato sempre Centemero – permette di recuperare materia ed energia: oltre al compost si ottiene infatti anche il biogas, che può essere trasformato in biometano per l’immissione in rete. Recentemente il Cic si è fatto promotore della produzione di biometano e sono già entrati in funzione 8 impianti consorziati Cic (di cui 2 sperimentali) in grado di produrre biometano dal trattamento dei rifiuti organici della raccolta differenziata urbana e di immettere il biometano nella rete di nazionale o di impiegarlo  per l’autotrazione». Proprio la virtuosa trasformazione in biometano si sta affermando come un altro prodotto della filiera del riciclo organico. I biodigestori possono produrre oltre al compost anche biometano che rappresenta una fonte di combustibile naturale e chiaramente una preziosa ed innovativa fonte di energia rinnovabile. Si prevedono sviluppi ulteriori per questo prodotto che potrebbe, entro il 2019, raggiungere una produzione nazionale 200 milioni di m3. Ogni cittadino italiano che si impegna per la raccolta del rifiuto organico può vedere trasformato questo rifiuto in biometano, necessario a percorrere circa 100-120 km/anno. Anche Il cosiddetto settore biowaste ha importanti ricadute economiche ed occupazionali: nel 2016, secondo le proiezioni del Consorzio Italiano Compostatori, il volume d’affari generato dal biowaste è stato pari a 1.8 miliardi di euro di fatturato, mentre i posti di lavoro generati 9.800 (+9% rispetto all’anno precedente): in pratica 1,5 posti di lavoro ogni 1.000 t di rifiuto organico. «La filiera del rifiuto organico – ha agguinto Centenaro -  coinvolge numerose attività, dai servizi di raccolta e trasporto, ai servizi di studio, ricerca e progettazione e delle tecnologie per il trattamento del rifiuto organico. Con una raccolta differenziata a regime in tutta Italia si potrebbe arrivare a 13.000 addetti e 2,56 miliardi di euro comprensivi dell’indotto generato».

Andrea Grossi

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Thu, 18 Apr 2019 17:21:59 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/490/rifiuti-organici-mancano-gli-impianti-al-centro-sud mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Dalla plastica al pieno di diesel: le nuove frontiere dell’economia circolare https://www.andreagrossi.net/post/489/dalla-plastica-al-pieno-di-diesel-le-nuove-frontiere-dell-economia-circolare

Trasformare i rifiuti in plastica in un carburante simile al diesel, in modo da trainare l'industria del riciclo e diffondere modi veramente meno inquinanti di spostarsi. Questo l'obiettivo di una tecnica della Purdue University, pubblicata sulla rivista ACS Sustainable Chemistry and Engineering[1] che punta a trasformare il 25% di tutti i rifiuti di plastica in un carburante simile al diesel. Il futuro della mobilità sarà sicuramente rappresentato dalle auto elettriche ma questo tipo di trasformazione della plastica in carburante può comunque promettere bene per un certo tipo di trazione. Il processo è potenzialmente più pulito ed efficiente dal punto di vista energetico rispetto al riciclo dei rifiuti. Convertire la plastica in un prodotto appetibile dal punto di vista economico che non produce lo stesso tipo di danno ambientale, non è certo la soluzione a tutti i problemi ma potrebbe essere un ottimo passo in avanti spingendo in avanti il business del riciclo dei rifiuti: «La nostra tecnologia potrebbe incentivare il riciclo -  ha detto Linda Wang, una delle autrici dello studio - riducendo al tempo stesso la riserva mondiale degli scarti di plastica. La tecnica consiste nel convertire i rifiuti poliolefinici in un’ampia gamma di prodotti di valore, come polimeri, nafta e combustibili puliti.». La tecnica si basa su una particolare proprietà dell'acqua che, quando viene riscaldata per diverse ore a poco meno di 500 gradi Celsius e contemporaneamente compressa, comincia a comportarsi sia come un liquido sia come un gas, riorganizzando le molecole del polipropilene (che costituisce il 25% della plastica) e ottenendo un prodotto chiamato nafta. I ricercatori guidati da Wan-Ting Chen sono riusciti a convertire più del 90% del polipropilene, dimostrando che il processo è molto efficiente. Sarebbe un ottimo risultato questo della conversione della plastica in carburante anche perché in questo momento solo il 20% della plastica utilizzata quotidianamente viene effettivamente riciclata ed una percentuale leggermente superiore arriva ai termovalorizzatori che hanno l'importante funzione di evitare all'ambiente l'impattante inquinamento delle microplastiche. Negli ultimi 65 anni, infatti, sono state prodotte circa 8,3 miliardi di tonnellate di plastica. Il 12% di questo materiale è stato incenerito e solo il 9% è stato riciclato. Il restante 79% è finito in mare o in discarica. Le fasi del processo di trasformazione sarebbero due, quella selettiva e quella della cosiddetta liquefazione idrotermica. Bisogna prima isolare le poliolefine dagli scarti plastici. Le poliolefine non sono altro che macromolecole derivate dalla polimerizzazione del petrolio o del gas naturale, che servono per la produzione della plastica. Ritornando alla materia prima, per dirla in termini semplici, si scioglie il tutto ricreando le stesse condizioni che in natura permettono la formazione del petrolio. Da qui la produzione di diesel o benzina. Se questo sistema dovesse decollare, secondo alcune stime, sarebbe possibile recuperare il 90% delle poliolefine destinate ad essere disperse nell’ambiente. E, sempre secondo i ricercatori della Purdue University, i combustibili creati sarebbero in grado di coprire fino al 4% della domanda mondiale annuale di diesel e benzina. Non sarebbe davvero poco. «Regolamentare i rifiuti di plastica, riciclandoli o semplicemente incenerendoli, non risolverebbe il problema – ha aggiunto Linda Wang – i materiali plastici degradano lentamente e rilasciano microplastiche e agenti chimici tossici nel suolo e nelle acque. Una vera e propria catastrofe, perché nel momento in cui questi inquinanti entrano nell’ambiente, ad esempio negli oceani, diventano impossibili da recuperare completamente. Il nostro obiettivo è creare un movimento organico interessato a convertire rifiuti poliolefinici in una vasta gamma di prodotti utili, come polimeri, nafta (una mistura di idrocarburi), o carburanti ‘puliti’ La nostra tecnologia di conversione ha il potenziale di far esplodere i profitti delle industrie del riciclo e impattare fortemente sulle riserve mondiali di rifiuti di plastica»[2].

Questa ricerca non è stata l'unica buona notizia delle ultime settimane. Una seconda bella novità è arrivata da Firenze dove i ricercatori del progetto 'Bio2energy'[3], realizzato dal dipartimento di ingegneria industriale dell'Università di Firenze, dal Pin di Prato e dal Cnr Iccom e finanziato dalla Regione Toscana con tre milioni, sostengono di poter produrre energia rinnovabile partendo dai rifiuti organici, rappresentando un perfetto esempio di economia circolare.  Si tratta di un modello per il trattamento dei rifiuti in grado di produrre biometano e bioidrogeno dalla sinergia tra materiale organico (proveniente dalla raccolta differenziata) e fanghi di depurazione (provenienti da impianti di depurazione dell'acqua), attraverso un processo che si definisce di codigestione anaerobica: in assenza di ossigeno si ottiene la degradazione del materiale organico e la produzione di biogas. I residui di questo processo, hanno spiegato i ricercatori, possono essere utilizzati come fertilizzanti naturali per l'agricoltura. Tra i risultati di 'Bio2energy' la riduzione dei costi sia in termini economici che ambientali, l'inserimento del digestato sul mercato dei fertilizzanti quale fonte di nutriente, l'ottimizzazione del recupero energetico e efficientamento energetico dell'impianto di codigestione e depurazione.

Andrea Grossi

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Tue, 9 Apr 2019 18:07:22 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/489/dalla-plastica-al-pieno-di-diesel-le-nuove-frontiere-dell-economia-circolare mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Economia circolare, discariche dovranno mantenere un ruolo residuale https://www.andreagrossi.net/post/488/economia-circolare-discariche-dovranno-mantenere-un-ruolo-residuale

Le discariche dovranno essere residuali. Nella scorsa primavera la nuova direttiva europea sull'economia circolare parlava chiaro: la questione rifiuti dovrà essere gestita puntando sul recupero e sulla trasformazione dei rifiuti. In discarica si potranno trattare al massimo il 10% dei rifiuti urbani entro il 2035, mentre la quantità di riciclo entro il 2025 dovrà raggiungere il 55%. Con obiettivi crescenti negli anni seguenti. Così come i materiali di imballaggio sempre entro il 2025, dovranno raggiungere la percentuale di riciclo del 65%. Fin dal 2014 paesi come Germania, Danimarca, Belgio, Olanda, Austria e Svezia hanno cessato di inviare rifiuti in discarica. All'estremo opposto Grecia, Lettonia, Cipro e Croazia hanno invece interrato ben tre quarti dei rifiuti urbani prodotti. In Italia la situazione è piuttosto variegata e dipende da regione a regione. Il ricorso alla discarica dipende dalla presenza o meno di termovalorizzatori e di altri impianti di trattamento. Probabilmente per il residuale ci sarà sempre bisogno della discarica, certi tipi di rifiuti non si possono recuperare. Anche nella raccolta differenziata ben il 40% della plastica secondo dati Corepla non è riciclabile e quindi finisce negli inceneritori o nelle discariche. Secondo il Rapporto Ispra del 2018[1] l'Italia manda nelle discariche circa 6,9 milioni di tonnellate all'anno di rifiuti urbani pari al 23% e 12,1 milioni di tonnellate di rifiuti speciali (8,6%). Tutto questo ha generato pensanti sanzioni da parte della Corte di Giustizia Ue, pari a ben 355 milioni di euro, riguardanti le carenze sullo smaltimento di rifiuti in Campania e le irregolarità in alcune discariche. Lo strumento dell'interramento spesso è stato utilizzato a Roma per gestire le emergenze, con l'individuazione di quattro aree destinate ad ospitare i rifiuti urbani. Stessa cosa in Sicilia dove la Regione ha optato per l'allargamento delle discariche esistenti pur di non realizzare altri impianti: qui siamo addirittura al 90% di rifiuti che finiscono in discarica. Con ricadute ambientali pesanti.  «Le discariche operative – si legge nel Rapporto Ispra -  nel 2017, sono 123, 11 in meno rispetto all’anno precedente: 51 al Nord, 27 al Centro e 45 nel sud Italia (37% del totale).  Il riciclaggio delle diverse frazioni provenienti dalla raccolta differenziata o dagli impianti di trattamento meccanico biologico dei rifiuti urbani raggiunge, nel suo complesso, il 47% della produzione: il 20% è costituito dal recupero di materia della frazione organica (umido+verde) e oltre il 27% dal recupero delle altre frazioni merceologiche. Due inceneritori in meno nel 2017: scendono a 39 gli impianti operativi (erano 41 l’anno precedente). Nel 2017, i rifiuti urbani inceneriti, comprensivi del CSS, della frazione secca e del bioessiccato ottenuti dal trattamento meccanico dei rifiuti urbani stessi, sono quasi 5,3 milioni di tonnellate (-2,5% rispetto al 2016). Il 70% circa dei rifiuti viene trattato al Nord, l’11% al Centro e quasi il 19% al Sud. Va precisato che in Italia tutti gli impianti di incenerimento recuperano energia, elettrica o termica; complessivamente vengono recuperati nel 2017 quasi 4,5 milioni di MWh di energia elettrica e 2 milioni di MWh di energia termica».  Questo modo di gestire il sistema rifiuti porta a paradossi e costi crescenti. Come ha rilevato lo stesso rapporto, nel 2017 l’Italia per la mancanza di impianti,  ha esportato 355 mila tonnellate di rifiuti urbani. Il 40% è stato trasferito in Austria (27,8%) e Ungheria (13,1%): si tratta soprattutto di Combustibile Solido Secondario (CSS) derivante dal trattamento di rifiuti urbani (pari al 37,1% dei rifiuti esportati). Non solo esportazione ma anche importazione dall'estero, circa 213 mila tonnellate nel solo 2017. Il maggior quantitativo proviene dalla Svizzera, con circa 72 mila tonnellate, corrispondente al 33,6% del totale importato seguita da Francia e Germania. Circa la metà dei rifiuti provenienti dalla Svizzera sono costituiti prevalentemente da rifiuti di imballaggio in vetro. «Il costo totale medio pro capite annuo è pari, nel 2017, 171,19 euro/abitante per anno. A livello territoriale il costo totale annuo pro capite, del servizio, risulta pari a 151,16 euro/abitante per anno al Nord, a 206,88 euro/abitante per anno al Centro ed a 182,27 euro/abitante per anno al Sud. I valori pro capite dell’Italia, relativi a produzione e gestione dei rifiuti urbani nel 2016, mostrano differenze rispetto alla media dell’Unione a 28. Produciamo più rifiuti, ne destiniamo di meno alle quattro forme di trattamento finale individuate da Eurostat. Conferiamo in discarica una percentuale di rifiuti urbani trattati maggiore della media UE28, ma anche la percentuale avviata a compostaggio e digestione anaerobica è superiore alla media dell’Unione. Da rilevare che il ricorso alla discarica vede un enorme divario tra i paesi europei: si va da un valore percentuale pari a 1% di Belgio, Danimarca, Germania, Paesi Bassi e Svezia, all’82% della Grecia e al 92% di Malta».

Andrea Grossi

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Tue, 26 Mar 2019 19:12:19 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/488/economia-circolare-discariche-dovranno-mantenere-un-ruolo-residuale mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Partenza a strappo per la fatturazione elettronica https://www.andreagrossi.net/post/487/partenza-a-strappo-per-la-fatturazione-elettronica

La fatturazione elettronica è partita ufficialmente e come era facile immaginare non sono mancati i problemi. Come ha rilevato un sondaggio del Consiglio Nazionale dei Commercialisti gli inconvenienti sono stati e rimangono notevoli. A cominciare dalle piattaforme utilizzate per emettere le e-fatture che non sempre rispondono in modo soddisfacente alle esigenze di imprese e professionisti. Ed anche sul fronte dell'assistenza i servizi offerti non sembrano eccelsi. Senza contare i rallentamenti telematici nelle varie procedure di invio. Il sondaggio ha raccolto i pareri di 350 commercialisti selezionati nell'intero territorio nazionale. Queste risposte, rileva il Consiglio Nazionale, fanno temere problemi ancora più seri in vista della scadenza del 16 febbraio in cui è prevista la prima liquidazione IVA. Il presidente nazionale della categoria, Massimo Miani, ha già richiesto un prolungamento fino al 16 marzo della moratoria sulle sanzioni relative alle operazioni di gennaio.  Il 50,4% del campione ritiene che le piattaforme per la fatturazione elettronica rispondano solo “solo in parte” alle esigenze, mentre per l’11,4% i sistemi sono poco soddisfacenti.  Per il 47,6% degli intervistati l'assistenza fornita in caso di problemi è “solo in parte” rispondente alle necessità e tempestiva, mentre è “poco soddisfacente” per il 22,8%. Va meglio solo in parte sul fronte delle operazioni di invio. Il 28,2% del campione sostiene di aver notato rallentamenti “spesso”, “continuativamente” il 12,5%, “talvolta” il 28,2%. Più positivi i dati sulle ricevute Sistema di Interscambio. Secondo i risultati del sondaggio, queste ultime arrivano “quasi sempre” nei tempi previsti nel 63,8% dei casi (11,4% sempre, 19,4% raramente). Secondo un’ampia maggioranza del campione (65,2%), il problema più rilevante riscontrato in queste prime settimane di e-fattura obbligatoria è legato alla scarsa conoscenza delle procedure da parte dei contribuenti. Per il 41 % ha pesato il ristretto tempo a disposizione, mentre il 37,6% lamenta il ritardo nella dotazione hardware/software dei clienti. Non solo. Per gli stessi commercialisti sono lievitati i costi.

Oltre il 75% degli intervistati ha dichiarato che l’investimento iniziale sostenuto dallo studio per l’avvio della e-fattura supera i 1000 euro. «I risultati di questo sondaggio – commenta il presidente nazionale dei commercialisti, Massimo Miani certificano la sostanziale impreparazione con la quale si è giunti a questo fondamentale appuntamento. Un’impreparazione che riguarda sia i gestionali che i contribuenti e che noi avevamo ampiamente previsto. Oggi si capisce in maniera ancor più chiara come la nostra richiesta di gradualità nell’introduzione della norma fosse saggia e motivata. In tantissimi stanno rinviando l’emissione delle fatture proprio perché il sistema non è pronto». Ma quante saranno le imprese obbligate ad emetterle? Si parla di circa 2,8 milioni le imprese che sono obbligate all'inizio dell'anno ad emettere la fattura elettronica: la fetta più grande è rappresentata dai 2,55 milioni di micro imprese, seguite dalle 250.000 medie imprese e dalle 4500 realtà più grandi. L'obbligo è scattato per circa il 56% delle partite Iva italiane. I dati sono stati diffusi dall'Osservatorio Fatturazione Elettronica and eCommerce B2b della School of Management del Politecnico di Milano, che stima anche un miglioramento della produttività del personale e un risparmio fra i 5 e i 9 euro a fattura. Criticità sono state segnalate anche sul fronte dei consumatori. Diverse le segnalazioni di cartelli e biglietti che annunciano un costo aggiuntivo per la fattura elettronica la cui emissione è un obbligo di legge.  «Non si tratta di una richiesta legittima – ha detto Fabio Galli del Codacons - anche se dobbiamo confermare che su tutto il territorio nazionale si stanno verificando casi di richieste di pagamento a parte della fattura elettronica: diventa una tassa occulta. Se una persona dovesse incappare in una situazione simile può chiamare la polizia municipale perché la fattura, elettronica o cartacea, deve essere garantita al cliente e il problema non può essere imputato al consumatore. Questi di fronte a tale prepotenza può scegliere di andarsene e non acquistare per dare il via a un’ inversione di tendenza. Altrimenti un po’ per pigrizia o perché uno non ha voglia, si finisce per cedere sempre».  Il vero problema per le imprese, secondo Luca Puccini, vicepresidente di Lapam Modena,  è quello di abituarsi a questo nuovo modo di fare le fatture: «quelle più strutturate che già emettevano fatture con software e applicativi in realtà sentiranno poco questo cambiamento, le altre devono attrezzarsi e sostenere costi per l’ acquisto di software o per l’ accesso alle piattaforme sulle quali gestire le fatture ma saranno alleggerite per il fatto di non dover più pagare altri adempimenti che prima erano obbligatori come lo spesometro per cui non ci dovrebbe essere una differenza sostanziale nelle casse delle imprese, salvo casi eccezionali. quella di chiedere un costo aggiuntivo per la fattura elettronica è una provocazione che rischia però di diventare un boomerang per l’ imprenditore». Prima dell'Italia l'obbligo era scattato solo in Portogallo. Insomma, sulle complicazioni difficilmente il nostro Paese non si fa trovare pronto.

Andrea Grossi

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Fri, 15 Mar 2019 20:09:45 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/487/partenza-a-strappo-per-la-fatturazione-elettronica mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Italia stritolata dalla burocrazia: lo sapevamo già, ce lo conferma la Cgia di Mestre https://www.andreagrossi.net/post/486/italia-stritolata-dalla-burocrazia-lo-sapevamo-gia-ce-lo-conferma-la-cgia-di-mestre

Solo in Grecia si sta peggio quanto a burocrazia. Forse non ci voleva un indagine ad hoc della Cgia di Mestre per avere la conferma di quanto imprese e cittadini già avvertono quotidianamente sulla loro pelle: la burocrazia italiana, al di là dei miti e delle leggende, è effettivamente asfissiante. I dati di questo studio sono stati realizzati attraverso l'indice europeo sulla qualità dei servizi offerti dagli uffici pubblici dei 19 paesi che utilizzano la moneta unica. Un’elaborazione, riferita al 2017, che è stata quindi realizzata dalla CGIA su dati della Commissione europea. E se la Finlandia, i Paesi Bassi e il Lussemburgo occupano il vertice virtuoso della classifica, Slovacchia, Italia e Grecia, invece, si collocano in fondo dove le tenaglie della burocrazie sono più affilate.  «Sarebbe comunque sbagliato generalizzare, non tutta la nostra amministrazione pubblica è di bassa qualità. La sanità al Nord, molti settori delle forze dell’ordine, diversi centri di ricerca e istituti universitari – afferma il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo assicurano delle performance che non temono confronti con il resto d’Europa. Ciò nonostante, il livello medio complessivo è preoccupante. L’incomunicabilità, la mancanza di trasparenza, l’incertezza giuridica e gli adempimenti troppo onerosi hanno generato una profonda incrinatura, soprattutto nei rapporti tra le imprese e i pubblici uffici, che ha provocato l’allontanamento di molti operatori stranieri che, purtroppo, non vogliono più investire in Italia anche per l’eccessiva ridondanza del nostro sistema burocratico». I dati sono confermati anche dalla comparazione della qualità della Pubblica Amministrazione a livello regionale. Rispetto ai 192 territori interessati dall’analisi realizzata nel 2017, le principali regioni del Centro-Sud d’Italia compaiono per 8 volte nel rank dei peggiori 20, con la Calabria che si classifica addirittura al 190° posto. Come per il confronto a livello nazionale, il risultato finale è un indicatore che varia tra 100, ottenuto dalla regione finlandese Åland (1° posto), e zero che ha “consegnato” la maglia nera alla regione bulgara dello Severozapaden. La situazione italiana piuttosto grave è certificata dal fatto che la regione più virtuosa italiana, il Trentino Alto Adige, a livello europeo si piazza solo al 118° posto.  Seguono, a pari merito, altre due regioni del Nordest: l’Emilia Romagna e il Veneto (indice pari a 39,4) che si collocano rispettivamente al 127° e al 128° posto della classifica generale. Subito sotto troviamo la Lombardia (38,9) che è al 131° posto e il Friuli Venezia Giulia (38,7) che si attesta al 133° gradino della classifica stilata dalla Commissione Europea. Male, come si ci poteva attendere, le regioni del Sud Italia dove si registrano le performance più preoccupanti. Se la Campania (indice pari a 8,4) è al 186° posto, l’Abruzzo (6,2) è al 189° e la Calabria, il territorio in cui la Pubblica Amministrazione funziona peggio occupando 190° gradino della graduatoria generale. Dati che inevitabilmente si ripercuotono poi nell'economia e nel benessere delle aziende. Secondo l'Ocse la produttività media del lavoro delle imprese italiane è più elevata nelle zone con una più efficiente amministrazione pubblica. «Purtroppo, i tempi e i costi della burocrazia – aggiunge il segretario della CGIA Renato Masonsono diventati una patologia che caratterizza negativamente una larga parte del nostro paese. In particolar modo le imprese italiane, essendo prevalentemente di piccolissima dimensione, hanno bisogno di un servizio pubblico efficiente ed economicamente vantaggioso, in cui le decisioni vengano prese senza ritardi e il destinatario sia in grado di valutare con certezza la durata delle procedure»

Tutto questo non può che far venire in mente questa frase: di burocrazia si muore. In Italia c'è un'alta tassazione anche perché si continuano a tenere in vita sacche di inefficienza costosissime che mettono in moto una burocrazia sempre più asfissiante per le imprese che se vogliono sopravvivere sono costrette a spostare tutto all'estero.

Andrea Grossi

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Thu, 7 Mar 2019 20:14:59 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/486/italia-stritolata-dalla-burocrazia-lo-sapevamo-gia-ce-lo-conferma-la-cgia-di-mestre mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Rifiuti, a Roma l’emergenza diventa normalità: senza nuovi impianti si rischia il caos https://www.andreagrossi.net/post/485/rifiuti-a-roma-l-emergenza-diventa-normalita-senza-nuovi-impianti-si-rischia-il-caos

«Non c'è un'emergenza rifiuti a Roma, ma uno stato di sofferenza che già da lunedì mattina dovrebbe trovare soluzione». Cosi' parlò a dicembre il ministro dell'Ambiente Sergio Costa.  «La competenza è di due figure istituzionali  da una parte il Comune, dall'altra la Regione Lazio. Il ministro dell'Ambiente fa da pontiere per creare quella sana amalgama di servizio che serve a risolvere la questione. Ma non parliamo di emergenza. Peraltro il concetto di emergenza, così come è stato concepito in Campania ha rovinato il sistema di gestione corretta dei rifiuti». Subito dopo Natale era partita l'azione congiunta per rimuovere i sacchetti di immondizia dalle strade accumulati durante le feste, con l'arrivo di una notizia che rappresentava una sorta di pagliativo: per un altro anno, infatti, sarà possibile conferire i rifiuti di Roma negli impianti dell'Abruzzo. La proroga, molto attesa soprattutto dopo il maxi rogo che ha messo ko uno dei quattro impianti di trattamento di Roma, rientrava nell'accordo di programma tra Regione Lazio e Regione Abruzzo per la gestione di 70.000 tonnellate di rifiuti. Nella conferenza di fine anno, il premier Conte aveva escluso la possibilità di un commissariamento della città.  L'Ama aveva fatto nel frattempo sapere di aver raccolto nelle ultime tra il 27 ed il 28 dicembre ben 3.100 tonnellate di rifiuti indifferenziati, mentre alcune squadre avevano rimosso rifiuti depositati intorno a circa 2.300 postazioni di cassonetti stradali. Queste azioni di Ama avevano scongiurato anche la chiusura delle scuole al rientro dalle festività natalizie, dopo l'appello dell'associazione nazionale presidi del Lazio[1]:  «Abbiamo apprezzato l'insolito attivismo di Ama che in questi due giorni, evidentemente anche grazie al nostro appello, si è attivata per ripulire le zone antistanti i plessi scolastici in vista della riapertura – ha detto Mario Rusconi, il presidente dell'Associazione -  Continueremo a vigilare affinché le condizioni incivili e deturpanti della città non si ripetano». Sul tema era addirittura intervenuto il vescovo ausiliare di Roma, mons. Paolo Lojudice[2]: «Io mi pongo, da semplice cittadino, la semplice domanda: ma come mai una grande città non riesce a risolvere il problema della spazzatura? È proprio così impossibile? Davvero non c'è soluzione? Io chiederei questo ai nostri amministratori: diteci il perché, è ciò che si domanda la gente, si resta amareggiati, avviliti». Il problema della situazione di Roma fa capire che senza un numero congruo di impianti non solo l'emergenza ritornerà ciclicamente ma la situazione rischia seriamente di degenerare. Non costruire nuovi impianti porta a spendere di più e ad aggravare le condizioni ambientali e sanitarie. Specie nella capitale d'Italia e nelle altre zone in cui c'è carenza impiantistica. Una situazione che facilita oltretutto l'interferenza e gli affari della criminalità organizzata. Come dimostra l'organizzazione scoperta proprio a Roma in cui tutti i componenti avevano un ruolo e una funzione: da chi rovistava nei cassonetti a chi vendeva i rifiuti metallici recuperati. Una filiera capace di mettere in piedi un traffico illecito di circa 3 milioni di chilogrammi di rifiuti metallici per un profitto che si avvicina al mezzo milione di euro. Un giro di affari calcolato per difetto e che emerge dalle carte dell'inchiesta della Procura che ha portato  ad emettere trenta misure restrittive di cui 15 in carcere in una maxindagine che vede complessivamente indagate 57 persone. Una indagine che riguarda anche i numerosi roghi tossici che vengono appiccati in molti campi nomadi presenti nella Capitale e che comportano rischi concreti per la salute di tutti. Ed a proposito di salute bisognerebbe prendere in seria considerazione l'allarme lanciato dall'Ordine dei Medici romano[3]: «La condizione dei rifiuti a Roma – ha scritto l'Ordine in una lettera al sindaco Raggi, ai ministri Grillo e Costa -  specie davanti ad ospedali, scuole, centri commerciali, parchi pubblici e aree residenziali, rischia di creare un grave problema di sanità pubblica della quale, ognuno per le proprie competenze più o meno dirette, dovrà farsi carico portando ad una comune soluzione definitiva del problema. Sempre più spesso, ci arrivano segnalazioni sul grave stato che alcuni quartieri stanno soffrendo per quanto riguarda la raccolta dei rifiuti. Come Ordine siamo preoccupati per quanto sta accadendo. Siamo consapevoli che la situazione si trascina da anni, e che recentemente con l'incendio dell'impianto TMB sulla Salaria la condizione si è ulteriormente aggravata». La soluzione per la Raggi non sembra passare dalla realizzazione di nuovi impianti.[4] «Roma non vuole discariche e la Città Metropolitana non vuole discariche. Serve il coraggio di dire che è il momento di cambiare tutto. Dobbiamo puntare sulla raccolta differenziata anche se non è facile. Abbiamo scoperchiato il vaso di Pandora. Abbiamo scoperto che una percentuale tra il 25% e il 30% di utenti non pagava la Tari, stiamo andando a colpire gli utenti fantasma. Si deve fare di più, assessorato e azienda devono fare di più perché Roma merita di più». Temo che con questo tipo di approccio, avallato anche dal governo nazionale, un caos rifiuti non più governabile sia tremendamente vicino

Andrea Grossi


[1]    http://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2019/01/06/rifiuti-presidi-scuole-roma-aperte_15379d02-0e70-4cec-87b2-a55d4504c9e2.html

[2]    http://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2019/01/11/rifiuti-roma-vescovo-stallo-avvilisce_7d3688b8-fd04-485d-a5a0-cd87e0893859.html

[3]    http://www.ansa.it/lazio/notizie/2019/01/07/rifiutiordine-medici-romarischio-grave_3d7b92d0-f3ca-4d2f-ad7a-2aa320091bf8.html

[4]    http://www.ansa.it/canale_ambiente/notizie/rifiuti_e_riciclo/2019/01/15/raggi-niente-discariche-ne-a-roma-ne-in-provincia_9971dc36-1db6-4c74-a0f7-261b199055f3.html

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Fri, 1 Mar 2019 15:17:02 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/485/rifiuti-a-roma-l-emergenza-diventa-normalita-senza-nuovi-impianti-si-rischia-il-caos mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Il rifiuto è un materiale povero: ecco perché la qualità della differenziata è così problematica https://www.andreagrossi.net/post/484/il-rifiuto-e-un-materiale-povero-ecco-perche-la-qualita-della-differenziata-e-cosi-problematica

La raccolta differenziata continua a crescere ma il problema della qualità del materiale da destinare al riciclo è sempre più stringente. Secondo i dati del Corepla[1], Consorzio nazionale per la raccolta degli imballaggi in plastica, non tutta la plastica ad esempio che viene raccolta nei cassonetti della raccolta differenziata può essere riciclata. Ben il 40% non può essere riutilizzata, e va a finire nelle discariche (20% dei casi) o nei termovalorizzatori (39%). Ed anche quanto riciclato, rischia di essere utilizzato per oggetti diversi e meno pregiati dell'originale. Un altro 40% della plastica raccolta non va al riciclo ma finisce nei cementifici od ancora una volta nei termovalorizzatori, dove si spera possa almeno trasformarsi in energia. Quindi secondo il Corepla solo il 60% della plastica raccolta viene effettivamente riciclata. Una tendenza che dimostra come il rifiuto in realtà sia un materiale piuttosto povero e dunque più lo si va a lavorare e più i costi rischiano di aumentare senza peraltro avere un reale beneficio. Peccato, visto che in Europa l'Italia ha stranamente un primato nel recupero dei rifiuti pari al 79% della raccolta complessiva a pari merito con la Germania. Anche nel 2017, a livello quantitativo, la raccolta differenziata continua  a crescere con oltre 1 milione di tonnellate ed un aumento dell'11,7%. Questo grazie all'incremento della raccolta in zone difficili come il Mezzogiorno e le migliori performance delle regioni da sempre più virtuose come l'Emilia Romagna. Sono 562.000 le tonnellate di rifiuti di imballaggio in plastica provenienti dalla raccolta differenziata domestica riciclate nel 2017 alle quali vanno ad aggiungersi le 24.780 provenienti dalle piattaforme da superfici private per un totale di 586.786 tonnellate. A questa cifra vanno aggiunti i quantitativi di imballaggi in plastica riciclati da operatori industriali indipendenti provenienti dalle attività commerciali e industriali pari a 400.000 tonnellate, per un riciclo complessivo di circa 986.000 tonnellate. Sono stati recuperati anche quegli imballaggi che ancora faticano a trovare sbocchi industriali verso il riciclo meccanico e il mercato delle plastiche riciclate.

Circa 324.000 tonnellate sono state utilizzate per produrre energia al posto di combustibili fossili. Secondo il Corepla l'impatto per il sistema è stato notevole: «Con il riciclo degli imballaggi in plastica provenienti dalle raccolte differenziate, nel 2017 sono stati risparmiati oltre 8 mila Gwh. L’Italia è all’avanguardia in Europa nel know how sul riciclo degli imballaggi in plastica. Ricicliamo infatti imballaggi che in altri Paesi non vengono nemmeno raccolti. Molto resta ancora da fare: la sfida è quella di riciclare nel 2020 il 40% degli imballaggi oggi non avviati a riciclo meccanico». Come riporta l'Ansa[2], il 2019 sarà un anno di lotta alla plastica dopo che l'Unione europea lo scorso 19 dicembre ha deciso che dal 2021 saranno vietati un serie di oggetti in plastica usa e getta non biodegradabile: posate e piatti, cannucce, contenitori per alimenti e tazze in polistirolo espanso (come le scatole degli hamburger del fast food), bastoncini di cotone per i prodotti dell'igiene tipo cotton fioc, bastoncini per palloncini e prodotti in plastica oxo-degradabile, come le buste di plastica che si frammentano se esposte all'aria. Dallo scorso primo gennaio è vietato produrre e vendere in Italia cotton fioc non biodegradabili e compostabili, cioè con il bastoncino in plastica.  I produttori dovranno  indicare sulle confezioni le regole per un corretto smaltimento, soprattutto il divieto di gettarli nel wc. In Europa saranno invece banditi dal 2021. Bisogna ricordare come i bastoncini di plastica dei cotton fioc rappresentano il 9% dei rifiuti ritrovati sulle spiagge italiane, una media di 60 per ogni spiaggia. Come ho già avuto modo di rilevare, ben vengano questi provvedimenti ma occorre anche individuare con precisione i materiali che andranno a comporre questo tipo di oggetti di largo consumo e fare una seria valutazione di costi-benefici.

Andrea Grossi

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Thu, 21 Feb 2019 18:52:07 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/484/il-rifiuto-e-un-materiale-povero-ecco-perche-la-qualita-della-differenziata-e-cosi-problematica mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Calano le proteste Nimby ma progetti e investimenti fuggono all’estero https://www.andreagrossi.net/post/483/calano-le-proteste-nimby-ma-progetti-e-investimenti-fuggono-all-estero

Sembrano essere calate nel 2017 le proteste nimby, acronimo inglese che sta per “Not in my backyard” (non nel mio giardino di casa): ossia quel movimento indistinto di persone che si oppone alle grandi opere, agli impianti industriali soprattutto in tematica ambientale o di viabilità.

Esiste l'apposito Osservatorio Nimby Forum[1] una think tank nata nel 2004 con il sostegno di enti locali, Ong ed imprese che cerca di descrivere la penetrabilità di questi movimenti. Secondo l'ultima edizione del rapporto elaborato ogni anno nel 2017 questo genere di proteste sarebbero appunto diminuite: sia perché sono aumentate le posizioni favorevoli agli impianti nell'opinione pubblica ma soprattutto perché sono allo stesso tempo calati gli investimenti degli imprenditori che fanno sempre più fatica a mettere soldi in settori dove si vivono contrasti così forti e dove la normativa non è neanche troppo chiara. «La fotografia  - si legge nelle conclusioni dello studio - che ci arrriva dalla XIII Edizione dell’osservatorio Nimby Forum presenta delle tendenze differenti rispetto alle precedenti edizioni. La più evidente è rappresentata non solo dal calo del numero totale degli impianti contestati, ma anche dalla diminuzione del numero di nuovi impianti rilevati come contestati per la prima volta. La chiave di lettura però non è tanto in una maggiore accettabilità sociale degli impianti quanto in una riduzione degli investimenti e dei nuovi progetti. Siamo al cortocircuito del fenomeno Nimby: nelle piazze scende chi vuole la TAV e al governo abbiamo la rappresentazione della crasi forzata tra due anime inconciliabili, quella del no a prescindere e quella dell’attivismo industrialista, in barba a concetti quali pianificazione, territorio, ambiente, eccetera. Siamo quindi lontani da qualunque forma di equilibrio e armoniosa conciliazione tra sviluppo e sostenibilità, tra modernizzazione infrastrutturale e partecipazione attiva della cittadinanza. Anzi, dopo tredici anni di Nimby Forum verrebbe da dire che si sta ripartendo da zero». In Italia gli impianti contestati in sono calati dai 359 del 2016 ai 317 del 2017 con un calo dell'11,7%. In forte diminuzione anche gli impianti contestati per la prima volta (-31,6%). Cali che secondo lo studio sarebbero come detto imputabili alla diminuzione di progetti e di investimenti e non tanto attribuibile ad un cambio di rotta nel sentimento popolare. Lo stesso rapporto però segnala come le persone con posizioni favorevole alle opere sia in aumento passando dal 19,9% del 2016 al 24,7% del 2017. Il settore più contestato (57,4%) è quello dell'energia, seguito da quello dei rifiuti (35,9%): dato che non sorprende perché spesso purtroppo le imprese che cercano di operare in modo costruttivo e sostenibile secondo i principi dell'economia circolare vengono scambiati con quelli che inquinano e creano il problema. C'è proprio un'inversione di responsabilità: le imprese che operano nel settore ambientale sono in realtà quelle che ripuliscono e recuperano. Tra gli impianti energetici quelli più contestati sono quelli relativi all'energia rinnovabile (73,3% includono biomasse, biometano da compostaggio, geotermia, eolico). Le proteste contro le centrali sono aumentate nel 2017 dell'1,2%, quelle per i rifiuti sono calate del 3,9% . La Lombardia detiene il record degli impianti contestati (38), seguita da Toscana (34), Lazio (29) ed Emilia Romagna, Puglia e Veneto a pari merito (27). «Abbiamo notizia di una diminuzione del numero di procedure nazionali di VIA, per cui vediamo un collegamento con la diminuzione delle contestazioni sui progetti verso cui tradizionalmente si esprime dissenso -  ha commentato Alessandro Beulcke, CEO Beulcke+Partners, l'agenzia che promuove l'Osservatorio Nimby Forum -  le imprese dinanzi a un quadro normativo incerto e a una politica spesso irresponsabile, che preferisce giocare con il consenso anziché governare il territorio, preferiscono investire altrove. Questo spiega l'ingente emorragia di capitali e la fuga di investimenti privati. È necessario ripartire dalla certezza del diritto, dall'ascolto attivo del territorio e da una politica più coraggiosa che non abbia paura di affrontare e gestire il malcontento, per investire davvero nella modernizzazione e lo sviluppo del Paese».

Andrea Grossi

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Tue, 12 Feb 2019 18:01:13 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/483/calano-le-proteste-nimby-ma-progetti-e-investimenti-fuggono-all-estero mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Imprese italiane sempre più digitalizzate https://www.andreagrossi.net/post/482/imprese-italiane-sempre-piu-digitalizzate

Le imprese italiane continuano a investire nell'innovazione digitale tanto che nel 2019 si prevede un aumento del budget Ict per 4 imprese su 10 con un incremento medio del 2,6%. Lo certifica la ricerca egli Osservatori 'Digital transformation academy' e 'Startup intelligence' della School of management del Politecnico di Milano. Ma in cosa si concentreranno esattamente questi investimenti? Nel 39% dei casi riguarderanno la dematerializzazione dei documenti, nel 38% la Big Data Analytics e nel 31% dei casi la pianificazione delle risorse. Il 33% delle imprese ha anche in programma o già avviato iniziative di open innovation con università centri di ricerca, aziende non concorrenti e startup. Nelle previsioni per il 2019 il budget ICT è «trainato dalle grandi imprese, che mostrano un incremento medio del 4,8%, seguite dalle medie (+3,2%) e dalle grandissime imprese (+1,9%). Il 14% delle aziende prevede un aumento del budget superiore al 10%, il 25% un aumento fino al 10%, Solo il 9,5% delle imprese diminuirà il budget ICT. Il 47% ha un budget dedicato all’innovazione digitale anche in altre funzioni aziendali: è inferiore a quello della Direzione ICT nel 36% dei casi, comparabile o superiore nell’11%. I principali ambiti di investimento ICT delle imprese italiane sono Digitalizzazione e Dematerializzazione. Seguono lo sviluppo e il rinnovamento dei sistemi CRM (26%), le soluzioni di eCommerce e Mobile Commerce (20%), sistemi di Information Security, Compliance e Risk Management (18%), applicazioni e tecnologie di Industria 4.0 (16%), Mobile Business (16%), sviluppo o rinnovamento dei Data Center e Information Management (15%). Chiudono a distanza Artificial Intelligence e Machine Learning (10%), Smart Working (10%), Internet of Things (9%), Supply Chain Finance e Blockchain (entrambe al 2%)». Non tutto comunque è semplice perché ancora c'è molta resistenza all'interno della cultura aziendale. Per il 55% delle aziende la sfida più difficile dal punto di vista organizzativo è rappresentata allo sviluppo di strutture, ruoli e meccanismi di coordinamento che coinvolgono le diverse Direzioni. Poi vengono la necessità di reperire, valutare e sviluppare competenze digitali (44%), la definizione di nuove forme di collaborazione con i fornitori tradizionali e nuovi partner come startup, centri di ricerca e università (41%). Il 60% delle imprese ha avviato iniziative per favorire l’attitudine imprenditoriale dell’organizzazione, come sensibilizzare i manager a stili di leadership indirizzati all’accettazione del rischio e dell’errore (39%), formazione su temi di frontiera come il design thinking (35%) e percorsi di formazione per stimolare l’innovazione fra i dipendenti (30%). Seguono collaborazioni con le startup (29%), l’organizzazione di contest o hackathon per coinvolgere i dipendenti (24%). Il 26% non ha lanciato nessuna iniziativa, ma le sta pianificando, mentre solo il 14% non è interessato. «Un terzo delle aziende analizzate è già oggi impegnato in iniziative di Open Innovation ed un ulteriore quarto si appresta ad avviare a breve iniziative in proposito – ha spiegato Stefano Mainetti, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Startup Intelligence e CEO di PoliHub -  Questi dati confermano una tendenza positiva. Sono per ora iniziative prevalentemente affrontate con pragmatismo e grande prudenza e, nella maggior parte dei casi, si registra un approccio estemporaneo dal quale stenta ancora ad emergere una reale azione sistematica. Le aziende stanno oggi sperimentando l’utilizzo di un ampio spettro di azioni di Inbound Open Innovation, con una predilezione per le attività più tradizionali e consolidate, che implicano minori investimenti e rischi, ma anche risultati di minore impatto. Nel caso dell’Outbound, invece, le imprese tendono a utilizzare quelle azioni che consentono di mantenere internamente la proprietà intellettuale o che favoriscono la riduzione del rischio imprenditoriale». Ritengo la digitalizzazione un'esigenza non rimandabile anche se poi il successo di un'impresa, così come prima, non dipenderà da questo ma dalla capacità di innovare e rispondere alle esigenze del mercato di riferimento.

Andrea Grossi

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Fri, 1 Feb 2019 19:21:36 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/482/imprese-italiane-sempre-piu-digitalizzate mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Copenaghen, pista da sci sul tetto del termovalorizzatore https://www.andreagrossi.net/post/481/copenaghen-pista-da-sci-sul-tetto-del-termovalorizzatore

Se in Italia i termovalorizzatori sono osteggiati in altre parti del mondo sono addirittura il fulcro di progetti innovativi in grado di creare valore, turismo, opportunità di business. È quello che è accaduto a Copenhagen con la realizzazione di una pista artificiale da sci sul tetto del nuovo termovalorizzatore inaugurato lo scorso anno di fronte al mare, nel centro della città. Con un particolare patriottico: il fondo in plastica dove si scierà tutto l'anno è stato fornito da un'azienda di Bergamo. Sto parlando dell'impianto di Amager Bakke – CopenHill[1] che ha avuto un costo di 670 milioni di dollari e che nel 2017 è andato a sostituire il vecchio impianto. È in grado di bruciare 400.000 tonnellate di rifiuti all'anno e dalla sua ciminiera esce solo vapore acqueo, almeno stando a quanto dichiarato dalle autorità danesi. I suoi sofisticati filtri trattengono infatti fumi e polveri. Non solo. Questo impianto, progettato dallo studio di architettura Bjarke Ingels Group,  è in grado di fornire elettricità a 62.500 abitazioni ed acqua calda a 160.000 utenze. Anche la dimensione estetica è particolarmente pregiata con pannelli di alluminio. La sua particolarità è quella di essere contraddistinto da un pendio di 200 metri sul tetto con una pendenza che tocca anche il 45%. Proprio sul pendio che scende da un'altezza di 90 metri, è stata realizzata una pista da sci larga 60 metri con un fondo in plastica: un ascensore e tappeti mobili permetteranno la risalita con la possibilità di accogliere fino a 200 sciatori. Il biglietto costerà circa 9,50 euro all'ora. Attorno alla pista saranno costruiti sentieri per jogging e trekking, aree picnic e saranno impiantati molti alberi. È inoltre prevista sul lato più alto dell'impianto la costruzione di una parete artificiale d'arrampicata con l'altezza più elevata del mondo: 85 metri. Ciliegina sulla torta una mega caffetteria con vista sul porto ed un ampio parcheggio utilizzabile anche per eventi legati al pattinaggio. Il parco verde sul tetto del termovalorizzatore si estende per 16mila metri quadri ed è stato disegnato dallo studio danese SLA, specializzato nella progettazione del paesaggio e di spazi urbani resilienti.  «Creare un parco panoramico attraente e verde in cima ad Amager Bakke è stato molto impegnativo – ha dichiarato Rasmus Astrup, partner dello studio SLA -   Non solo a causa delle condizioni naturali estreme - e innaturali - del sito e del tetto stesso, che mettono a dura prova piante, alberi e paesaggi. Ma anche perché abbiamo dovuto garantire che le numerose attività del tetto fossero realizzate in modo accessibile, intuitivo e invitante. L'obiettivo è quello di garantire che Amager Bakke diventi uno spazio pubblico ricreativo ricco di eventi con una natura rigogliosa e sensuale che offra un valore aggiunto a tutti i cittadini di Copenhagen, tutto l'anno».   Un'opera dunque in grado di abbracciare numerosi obiettivi virtuosi: sostenibilità ambientale, risoluzione problema dei rifiuti, attività ricreative e sportive uniche in un luogo bellissimo, produzione di energia e di acqua a costo zero. Un tipo di progetto elogiato anche dal vicepremier italiano Matteo Salvini: «I rifiuti significano ricchezza, energia e acqua calda. A Copenaghen inaugureranno un inceneritore con una pista da sci e una parete da arrampicata, altrove sono musei. Se gestiti bene e controllati bene portano più salute e più economia». Eppure nel governo c'è ancora chi continua a disprezzare un simile modello .Il vicecapogruppo 5 stelle alla Camera Alberto Zolezzi[2]  parla di una campagna di marketing “a favore di questo inceneritore  lanciata nel 2016 per promuovere le politiche di Renzi. Già allora venne prontamente smontata da esperti come Enzo Favoino, che ha ben spiegato lo scontro attuale tra chi vuole bruciare e chi vuole recuperare materia e sul caso danese gli ‘scenari finanziari incerti sono già evidenti nel caso dell’inceneritore di Amager Bakke a Copenhagen, Un impianto che sta già alimentando dubbi, perché non sanno cosa bruciare. Altri articoli sulla stampa straniera denunciano le operazioni di lobbying che hanno preceduto l’approvazione del progetto in una nazione che brucia circa il 60 per cento dei propri rifiuti e della forte difficoltà a rispettare i parametri europei del 50 per cento di riciclo materia previsti dalla diretta 2008/98». Mentre nel mondo si intraprendono con successo strade progettuali virtuose,  solo in Italia il dibattito è tutto finalizzato sul non fare lasciando tutto in balìa di un'emergenza rifiuti che da un giorno all'altro potrebbe esplodere con gravissime ripercussioni per tutti.

Andrea Grossi

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Tue, 22 Jan 2019 17:02:48 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/481/copenaghen-pista-da-sci-sul-tetto-del-termovalorizzatore mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Otto nuovi termovalorizzatori per risolvere l’emergenza rifiuti, ma per il Governo sarebbero inutili https://www.andreagrossi.net/post/480/otto-nuovi-termovalorizzatori-per-risolvere-l-emergenza-rifiuti-ma-per-il-governo-sarebbero-inutili

Mentre le ricerche e le emergenze quotidiane legate ai rifiuti ci dicono che in Italia mancano gli impianti di termovalorizzazione, illustri esponenti del governo arrivano a sostenere l'esatto contrario. Come il ministro dell'Ambiente Sergio Costa che ospite a Brescia di un convegno sulla situazione ambientale locale ha dichiarato[1]: «Una cosa è aprire e una cosa è chiudere i termovalorizzatori. Aprirli è antieconomico. Quello di Brescia? E' già aperto...Il tema dei termovalorizzatori non è una questione ideologica ma economica Se il primo gennaio del 2019 dovessimo mai autorizzare un termovalorizzatore ci vogliono non meno di 7 anni per costruirlo e il 'business plan' prevede non meno di 20 anni per il recupero economico. Saremmo nel 2046 quando avremo percentuali tra 90% e 95% di differenziata e di riciclo  e quindi non ci sarà più nulla da bruciare. Ecco perché dico che è una questione economica, tant'è che le gare vanno tutte deserte. Una cosa non si fa se non conviene e i termovalorizzatori non convengono più». Concetti ribaditi anche a Napoli nel corso di un'altra visita[2]. «Gli inceneritori non convengono, non servono. Non risolvono l’emergenza. Se partiamo domattina a costruirlo, il 1 gennaio 2019, sarà pronto 7 anni dopo, il 1 gennaio 2026. I costi di un impianto del genere si ammortizzano in 20 anni, quindi nel nostro caso nel 2046, a 27 anni da oggi. Intanto il pacchetto di economia circolare vuole che l’Italia e l’Europa raggiungano il 90% di differenziata entro il 2035. Allora, mi chiedo, cosa diamo da mangiare ai termovalorizzatori se ci sarà solo il 10% di indifferenziata?» Una posizione politica legittima per carità. Solo che nello stesso tempo in cui si fanno queste dichiarazioni bisognerebbe anche specificare come si intende risolvere il grave problema italiano dell'emergenza rifiuti. Anche perché i numeri che erano emersi nella ricognizione contenuta nel cosiddetto decreto “Sblocca Italia”[3] parlavano piuttosto chiaro. In Italia abbiamo un fabbisogno di quasi 2 milioni id tonnellate all'anno di rifiuti (circa 1,8 milioni) e quindi come minimo servirebbero almeno 8 nuovi impianti di termovalorizzazione. Il decreto prevedeva "l'individuazione della capacità complessiva di trattamento degli impianti di incenerimento di rifiuti urbani e assimilabili in esercizio o autorizzati a livello nazionale, nonché individuazione del fabbisogno residuo da coprire mediante la realizzazione di impianti di incenerimento con recupero di rifiuti urbani e assimilati offre un quadro di quello che servirebbe al Paese in termini di termovalorizzatori per la gestione dei rifiuti”. Stiamo parlando di un fabbisogno pressoché nullo al Nord, di oltre 500 mila tonnellate nel centro italia, di 488,432 al Sud, oltre 120 mila in Sardegna ed addirittura di 685.099  nella sola Sicilia. Con questa ripartizione sarebbero quindi necessari 3 nuovi termovalorizzatori nel centro Italia, 2 in Sicilia, 1 in Sardegna e 2 nella restante parte del Sud.  I nuovi impianti andrebbero a soddisfare il fabbisogno anche di altre regioni: 130 mila tonnellate prodotte all'anno in Umbria, 190 mila nelle Marhce, 210 nel Lazio, 300 mila in Campania, 120 mila in Abruzzo. Erano considerati invece solo da potenziare i siti della Puglia (+70 mila tonnellate di rifiuti) e della Sardegna (+20 mila). La disparità tra Nord e Sud si vedeva anche nella capacità di trattamento degli impianti in attività. Il Nord ha una capacità di 4,2 milioni di tonnellate all'anno (su 5,9 milioni tonnellate a livello nazionale), al centro la capacità è di 660 mila tonnellate, al Sud e nelle isole la capacità di trattamento supera di poco 1 milione di tonnellate. Dunque questo conferma come siano vitali nuovi impianti: ne sono convinto e lo direi senza problemi anche se non fossi un imprenditore del settore.

Andrea Grossi

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Mon, 14 Jan 2019 17:34:26 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/480/otto-nuovi-termovalorizzatori-per-risolvere-l-emergenza-rifiuti-ma-per-il-governo-sarebbero-inutili mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
I talenti stranieri bocciano l’Italia: Paese difficile in cui vivere e lavorare https://www.andreagrossi.net/post/479/i-talenti-stranieri-bocciano-l-italia-paese-difficile-in-cui-vivere-e-lavorare

«Lavorare all'estero in Italia non è così spensierato come si potrebbe pensare. L'Italia occupa  i dieci più bassi piazzamenti nella sezione Prospettive e Soddisfazione sulla carriera, Lavoro e tempo libero,e Economia e sicurezza che collocano l'Italia in penultima posizione nell'Indice di Working Abroad» Sembrano essere impietosi i dati dell'Expat City Ranking 2018[1], una sorta di classifica ideata da InterNations, la più grande comunità di stranieri espatriati nel mondo che vuole identificare le migliori città dove vivere e lavorare per un talento straniero. Roma si posiziona al 70° posto, la terzultima a livello globale: quasi il 60% degli expat non è contento delle prospettive di carriere offerte dalla capitale, il 36% ritiene il proprio posto di lavoro poco sicuro, il 33% non valuta positivamente l’equilibrio tra vita privata e professionale e il 38% è insoddisfatto della propria occupazione a livello generale, ben 20 punti in più rispetto alla media globale. Inoltre, solo il 44% valuta positivamente la sua situazione finanziaria. Roma si trova più o meno nelle stesse condizioni di Riad e Gedda: insomma, non proprio un vanto. A livello generale italiano, «quasi la metà degli espatriati (45%) non è soddisfatta delle prospettive di carriera in Italia, rispetto a una media globale del 64%. Solo il 17% si dice completamente soddisfatto.  Un giovane americano americano intervistato dalla ricerca parla di «datori di lavoro disonesti ovunque, pochissime opportunità di lavoro e bassi salari». Il nostro paese è dileggiato anche dai giovani albanesi. Uno di loro racconta: «qui le opportunità per fare carriera sono inesistenti». Quasi 3 intervistati su 5 non trovano all’altezza la rete di trasportoI mezzi pubblici sono pessimi» – sostiene una lavoratrice ungherese) e in generale si sentono poco sicuri nelle città. L’unico fattore per cui Roma si classifica nella top ten mondiale è il clima: 9 intervistati su 10 sono felici del “meteo romano”. Anche Milano non sta molto meglio, si classifica solo al 63° posto. A penalizzarla il costo della vita giudicato eccessivo.  «Gli stipendi sono bassi – afferma giovane iraniano – ma le spese sono alte». «Diventa dura se sei un expat a Milano e non hai abbastanza soldi» – conferma un ragazzo argentino. Quasi quattro intervistati su dieci, infatti, non sono soddisfatti della loro situazione finanziaria. Appena il 18% pensa che le abitazioni abbiano prezzi accessibili e solo per il 28% è facile trovare una sistemazione decente in città. Insomma, non più del 33% dei talenti stranieri intervistati dallo studio è soddisfatto del costo della vita a Milano. Un lato positivo è comunque la capacità di saper socializzare ed accogliere degli italiani. «Anche se non è sempre un compito facile, a volte il modo migliore per stabilirsi in un nuovo paese è fare amicizia con la gente del posto. Quasi il doppio della media globale (19%), degli espatriati in Italia descrive i propri amici e conoscenti come residenti per lo più locali. Due terzi degli espatriati si sentono a casa in Italia, anche se una percentuale inferiore alla media degli intervistati (61% contro il 66% globale) concorda generalmente sul fatto che esiste un atteggiamento amichevole nei confronti degli stranieri residenti in Italia. Imparare la lingua non sembra essere troppo difficile, tuttavia: il 54% generalmente concorda che l'italiano è facile da apprendere, rispetto al 36% a livello globale». Milano viene comunque considerata migliore nella qualità della vita rispetto al passato. Considerata buona anche l'offerta creativa della città. Milano e Roma devono competere con quelle che vengono considerate le dieci migliori città del mondo: Taipei, Singapore, Manama, Ho Chi Minh City, Bangkok, Kuala Lumpur, Aquisgrana, Praga, Madrid e Mascate. In Italia l'unica vera city è Milano. Per il resto questo studio dimostra con l'Italia sia il paese ideale per trascorrere una bella vacanza ma non certo per lavorare o viverci. È una riflessione amara ma purtroppo aderente alla realtà come ci hanno confermato i giovani talenti stranieri intervistati in questo rapporto di Internations.

Andrea Grossi

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Tue, 8 Jan 2019 17:53:31 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/479/i-talenti-stranieri-bocciano-l-italia-paese-difficile-in-cui-vivere-e-lavorare mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Rifiuti, l’allarme di Chicco Testa: “Italia bloccata dalla cultura nimby” https://www.andreagrossi.net/post/478/rifiuti-l-allarme-di-chicco-testa-italia-bloccata-dalla-cultura-nimby-

Si chiama cultura nimby ed indica quell'atteggiamento contro opere di interesse pubblico o non, che hanno, o si teme possano avere, effetti negativi sui territori in cui verranno costruite, come ad esempio grandi vie di comunicazione, cave, sviluppi insediativi o industriali, termovalorizzatori, discariche, depositi di sostanze pericolose, centrali elettriche e simili. E l'Italia sembra essere sempre più frenata dall'influenza che questo tipo di approccio ha nei confronti delle decisioni di governo, sia esso nazionale o locale. Nelle ultime settimane su questo tema si è alzata forte la voce di uno storico ambientalista e politico italiano, Chicco Testa, oggi presidente di Assoambiente l'associazione che riunisce le imprese che trattano i rifiuti. In Italia, come dargli torto, mancano gli impianti per il trattamento dei rifiuti e non si riesce a costruirne di nuovi, da una parte per problemi burocratici ma dall'altra anche e soprattutto per le resistente di questa cultura nimby che sembra aver avvolto le varie componenti della nostra società: cittadini, politica, magistratura. Testa ne ha parlato con l'Ansa[1] a Rimini durante la fiera della green  economy Ecomondo-Key Energy, partendo dagli incendi ai depositi di rifiuti della plastica. «I mercati neri, compresi gli stoccaggi irregolari, nascono quando non c'è un'offerta di mercato regolare. C'è un deficit impiantistico, oppure gli impianti ci sono, ma sono troppo cari. Se noi avessimo un'offerta legale a prezzi ragionevoli, nessuno avrebbe bisogno di fare stoccaggio o incendiare». Ma come si può spiegare la così forte carenza di impianti che abbiamo in Italia? Secondo Chicco Testa le ragioni sono molteplici.

«Procedure autorizzative complicatissime, una pianificazione pubblica oppressiva che vuole decidere lei quanti impianti devi fare. E poi c'è il fattore nimby (acronimo inglese per 'not in my backyard', 'non nel giardino di casa mia', n.d.r.). C'è il nimby dei comitati ambientalisti o pseudo ambientalisti. C'è il nimby dei politici. C'è un nimby dovuto ad alcuni comportamenti scorretti di alcune imprese, che hanno gettato una luce negativa sul settore. E c'è il nimby della magistratura. Noi siamo passati da 1.000 procedimenti di argomento ambientale di dieci anni fa a 13.000 dell'anno scorso. Più del 50% si concludono con un nulla di fatto. Manca una politica che sia autorevole, che spieghi ai cittadini che l'economia circolare non significa che i rifiuti evaporano. L'economia circolare significa che hai bisogno di impianti, di tecnologia, di ricerca scientifica».

Il presidente di AssoAmbiente non vede di buon occhio i primi mesi da ministro dell'Ambiente del pentastellato Sergio Costa. «Il ministro continua ad avere questa preclusione contro i termovalorizzatori. Ma anche se tu porti la raccolta differenziata in tutta Italia al 70%, dell'altro 30% che ne fai? Hai due sole scelte: o la discarica o il termocombustore. Io preferisco il termocombustore perché è meno inquinante della discarica. Ci sono i dati Ispra che fanno vedere che il contributo di questi impianti all'inquinamento atmosferico è trascurabile. Roma  manda 170 camion al giorno di rifiuti organici a Padova, 1.500 km fra andata e ritorno, con una quantità di emissioni. Dov'è il vantaggio ambientale? E poi la Raggi non vuole che venga costruito un impianto di compostaggio vicino a Roma! Ci sono rifiuti che partono dalla Sicilia per andare a Bergamo. In Sicilia non hanno un termovalorizzatore, non hanno un impianto per trattare le biomasse. Noi in Italia come economia circolare siamo in assoluta avanguardia, ce la battiamo con la Germania. Abbiamo le tecnologie, abbiamo impianti bellissimi, abbiamo gente pronta ad investire. Bisogna liberare questo settore». Credo che Chicco Testa abbia ragioni da vendere, in Italia la burocrazia, le proteste, i comitati hanno ingessato il settore dei rifiuti con il rischio quotidiano di nuove emergenze proprio per la carenza di impianti.

Andrea Grossi

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Thu, 3 Jan 2019 17:21:48 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/478/rifiuti-l-allarme-di-chicco-testa-italia-bloccata-dalla-cultura-nimby- mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
L’Ue bandisce stoviglie e piatti monouso in plastica, i produttori: danno enorme e igiene a rischio https://www.andreagrossi.net/post/477/l-ue-bandisce-stoviglie-e-piatti-monouso-in-plastica-i-produttori-danno-enorme-e-igiene-a-rischio

La Direttiva Europea approvata lo scorso 24 ottobre dal Parlamento Ue preoccupa e non poco PlasticsEurope[1], l'Associazione di Federchimica che rappresenta i produttori di materie plastiche:  alcuni prodotti monouso in plastica saranno messi al bando tout court nonostante i tentativi di emendamento messi in atto da alcuni eurodeputati italiani. Le misure della direttiva vengono considerate sproporzionate e non in grado di risolvere il grave problema dei rifiuti di plastica in mare. Un danno enorme per l'industria italiana. L'associazione esprime infatti profonda preoccupazione per gli effetti di tale bando sulla filiera dell'industria delle plastiche in Italia. «I numeri di fatturato (1000 milioni di euro diretto, 2300 milioni di euro indiretto) e di addetti (2000 diretti e 8500 indiretti) – si legga nel comunicato stampa di PlasticsEurope -  sono tutt'altro che trascurabili e dimostrano l'assoluta eccellenza di questo comparto italiano nel panorama europeo. L'eliminazione di piatti e posate in plastica va valutata dal punto di vista dell'igiene alimentare: a questo riguardo sarebbe più che opportuna e tempestiva una valutazione da parte di EFSA (l'autorità europea per la sicurezza alimentare). Le imprese associate a Federchimica/PlasticsEurope Italia si impegnano a perseguire precisi programmi e proposte volti ad assicurare il recupero e il riciclo dei prodotti in plastica monouso, in linea con gli obiettivi di riciclo previsti dalla Commissione europea per l'imballaggio in plastica. Si auspica che le prossime discussioni istituzionali possano portare a sostanziali modifiche del testo».  L’associazione ha chiesto dunque l’intervento dell’EFSA, per valutare le possibili conseguenze di questa misura sull’igiene alimentare scaturite dal divieto di utilizzo di posate e piatti monouso. Secondo PlasticsEurope la direttiva europea non fornirebbe definizioni complete ed esaustive dei prodotti vietati e dei ruoli per il riciclo e questo potrebbe generare ulteriore confusione. I materiali monouso in plastica, sottolinea  l’associazione, non solo gli unici responsabili dell’inquinamento in  mare, frutto di fattori molto complessi tra cui una gestione impropria dei rifiuti e la sommatoria di abitudini sbagliate. Ma non c'è solo PlasticEurope sul piede di guerra. Anche EuPC[2], altra associazione che rappresenta i produttori degli articoli monouso in plastica ha voluto a sua volta far presente i possibili danni per l'igiene e la salute dovuti all'abolizione delle stoviglie monouso. «Sarebbe decisamente meglio creare un regolamento europeo anti-littering (uguale per tutti i consumatori dell’UE), invece di vietare prodotti che saranno sostituiti da alternative meno rispettose dell’ambiente». Un tema sul quale sta puntando anche European Bioplastics, associazione europea dei produttori di bioplastiche. Il suo punto di vista è un po' più diplomatico delle altre associazioni. Da una parte si è infatti detta favorevole al passaggio ad un'economia circolare con la riduzione dei prodotti usa e getta ma allo stesso tempo non si possono dimenticare i problemi legati all'igiene. Non sarebbe giusto cioè abolire il concetto di prodotto monouso quando esistono sul mercato piatti e posate biodegradabili, prodotti certificati, che possono rappresentare un'alternativa virtuosa ai prodotti tradizionali in plastica. In più c'è un problema pratico come ha sottolineato  François de Bie, presidente di European Bioplastics, relativo alla difficoltà di sostituire questi prodotti nella realtà quotidiana. «In alcuni contesti a circuito chiuso, come mense, catering aereo, eventi sportivi e concerti, offrono una soluzione efficiente e indispensabile per garantire la sicurezza e l’igiene di cibi e bevande, assicurando al tempo stesso la raccolta e il riciclo dei rifiuti». Il problema è proprio questo. Tutti siamo d'accordo sul prendere misure per limitare l'inquinamento ed arrivare ad una vera economia circolare. Ma questo obiettivo non si raggiunge con le chiacchiere, va messo in pratica. Abolire i prodotti monouso senza aver prima delineato delle valide alternative non servirà a niente, se non a creare ancora più caos senza risolvere il problema.

Andrea Grossi

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Thu, 27 Dec 2018 18:20:29 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/477/l-ue-bandisce-stoviglie-e-piatti-monouso-in-plastica-i-produttori-danno-enorme-e-igiene-a-rischio mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Italia paralizzata dai rifiuti, servono nuovi impianti https://www.andreagrossi.net/post/475/italia-paralizzata-dai-rifiuti-servono-nuovi-impianti

Un articolo de “Il Sole24 Ore”[1] uscito a metà ottobre ha messo il dito nella piaga sulla situazione dei rifiuti in Italia. Un sistema quello della raccolta tradizionale, della differenziata, del riciclo di materiali recuperabili e dello smaltimento che sta andando in tilt specie in alcune città come Roma. Tutto questo si ripercuote sull'intero sistema paralizzando tutto il ciclo: la quantità riciclabile che viene raccolta nel resto d'Italia aumenta sempre di più ma allo stesso tempo di fatto non esiste un mercato dei prodotti riciclati. Un Paese questo che avrebbe bisogno di impianti ulteriori di smaltimento, come i termovalorizzatori ma sembra che non se ne possa neanche parlare per l'appoggio politico fornito ai vari Comitati del No che spuntano ovunque come funghi. Un grave problema dovuto non solo alla mancata realizzazione di nuovi impianti ma anche alla chiusura forzosa di quelli già esistenti ed operativi per l'intervento di sindaci e magistratura.  «I prezzi sul mercato dello smaltimento sono sempre più alti e insostenibili – scrive Il Sole -  gli impianti si fermano intasati di rifiuti, basta un incidente da nulla per scatenare un incendio colossale di spazzatura accumulata, si dà spazio alla malavita che risolve il problema dei rifiuti con una tanica di gasolio e un accendino che fanno respirare ai polmoni dei cittadini quelle diossine che gli inceneritori non producono.  Non c’è domanda sufficiente di prodotti riciclati. Non è ancora decollato il mercato dei prodotti ottenuti da materie prime rigenerate. Decollerà, ma oggi si accumulano materiali che non hanno mercato. Se per molte persone la raccolta differenziata dei rifiuti è immaginata come una soluzione, in realtà la raccolta differenziata è uno strumento e non un fine. Oggi gli italiani differenziano il 52% della spazzatura. Carta, plastica, vetro, metalli, legno, materiale organico.  Le quantità di materiali da riciclare aumentano di giorno in giorno e ormai per molti settori l’offerta di materiali supera la domanda dell’industria; le vetrerie respingono i camion carichi di vetro usato, le cartiere rimandano indietro i carichi. I materiali selezionati da aziende e cittadini si accumulano. Basta una scintilla occasionale per scatenare incendi di grandi dimensioni, e si crea spazio alla malavita che offre soluzioni di comodo». La costruzione di nuovi impianti sembra essere una chimera. Si riesce a realizzare solo impianti di compostaggio oppure impianti per selezionare la plastica di qualità che andranno a far lievitare un tipo di output che non troverà mercato. Non si parla però di realizzare nuovi inceneritori.

La politica sempre soffiare sulle irrazionali paure della popolazione avallando la chiusura degli impianti di smaltimento e riciclo come avvenuto in Lazio e Sicilia. E tutto questo costa alla stessa popolazione italiana 120 mila euro al giorno di multa: ossia la sanzione europea comminata per i 6 milioni di tonnellate di rifiuti accumulate negli anni più bui di Napoli. La più grande crisi siciliana dei rifiuti non avrà una risposta risolutiva visto che il Consiglio dei Ministri ha bloccato la realizzazione di un nuovo inceneritore già in progetto che sarebbe andato a sostituire la vecchia centrale ad olio combustibile di San Filippo del Mela in provincia di Messina: l'impianto che si trova accanto ad una raffineria di petrolio andrebbe a deturpare non si sa bene quale paesaggio. Nella provincia romana Zingaretti, presidente della Regione Lazio, ha annunciato che non si farà più l'inceneritore di Colleferro, forse l'ultima speranza per salvare la capitale dalla spazzatura. Lo stesso Zingaretti che ha firmato una delibera per prorogare ancora il trasferimento a L'Aquila dei rifiuti non trattati, 39 mila tonnellate di rifiuti che finiscono sulle spalle dell'Abruzzo. In Italia il 60% dei rifiuti indifferenziati finisce in discarica anche se questo non dovrebbe avvenire. Anzi, la legge lo vieta espressamente con tanto di procedura europea di infrazione. Per bypassare il divieto si utilizzano gli impianti Tmb (trattamento meccanico biologico). Senza nuovi impianti di termovalorizzazione ed una presa di coscienza responsabile della classe dirigente di questo Paese, il problema rifiuti diventerà emergenza: ambientale ed economica. 

Andrea Grossi

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Mon, 17 Dec 2018 16:55:55 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/475/italia-paralizzata-dai-rifiuti-servono-nuovi-impianti mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Il sommerso vale 210 miliardi di euro, il 12,4% del Pil: l’ultimo rapporto dell’Istat https://www.andreagrossi.net/post/474/il-sommerso-vale-210-miliardi-di-euro-il-124-del-pil-l-ultimo-rapporto-dell-istat

Italia e sommerso sono spesso considerati sinonimi per l'alta propensione del nostro paese ad incentivare un'economia illegale e possibilmente lontana dal fisco. Vuoi per l'alta tassazione vuoi per una sorta di propensione naturale all'evasione, le statistiche certificano un volume d'affari piuttosto consistente del cosiddetto sommerso. L'ultima fotografia arriva dall'Istat che come al solito non offre dati recentissimi ma che comunque rendono abbastanza l'idea della tendenza attuale. Il periodo analizzato va dal 2013 al 2016. Il valore aggiunto dell'economia sommersa vale ben 192 miliardi. «Nel 2016 – si legge nel rapporto Istat[1] dedicato al sommerso - il valore aggiunto generato dall’economia non osservata, ovvero dalla somma di economia sommersa e attività illegali, si è attestato a poco meno di 210 miliardi di euro (erano 207,4 nel 2015), con un’incidenza sul Pil pari al 12,4% (12,6% nel 2015). L’economia non osservata, con un aumento dell’1,2%, mostra una dinamica più lenta rispetto al complesso del sistema produttivo (+2,3%). Conseguentemente, pur in presenza di un incremento di circa 2,5 miliardi di euro, l’incidenza sul complesso dell’attività economica si riduce di 0,2 punti percentuali. Tale flessione si aggiunge a quella già registrata nel 2015, portando la riduzione complessiva a 0,7 punti percentuali rispetto al picco del 2014. Nel 2016, il valore aggiunto generato dall’economia non osservata incide per il 13,8% sull’ammontare complessivo prodotto dal sistema economico. La diminuzione di 0,2 punti percentuali rispetto al 2015 è interamente dovuta alla riduzione del peso della componente riferibile al sommerso economico (dal 12,8% al 12,6%) a fronte di una sostanziale stabilità dell’incidenza dell’economia illegale (1,2%)». Il rapporto si è ovviamente soffermato anche sul lavoro nero. «Il ricorso al lavoro non regolare da parte di imprese e famiglie è una caratteristica strutturale del mercato del lavoro italiano. Nel 2016 sono 3 milioni e 701 mila le unità di lavoro (ULA) in condizione di non regolarità, occupate in prevalenza come dipendenti (2 milioni e 632 mila unità). Il tasso di irregolarità, utilizzato quale indicatore di diffusione del fenomeno e calcolato come incidenza percentuale delle unità di lavoro a tempo pieno (ULA) non regolari sul totale, è del 15,6%. La componente irregolare del lavoro ha segnato nel 2016 un calo (-0,6%) che segue gli aumenti del biennio precedente (rispettivamente +1,5 nel 2015 e +5,0% nel 2014)». Ma quali sono i settori tipici dell'economia sommersa? Troviamo innanzitutto i mercati clandestini di attività illecite come lo spaccio di stupefacenti o lo sfruttamento della prostituzione. Ma poi troviamo anche ambiti riferiti a settori del tutto regolari. «Nel 2016, le attività illegali considerate nel sistema dei conti nazionali hanno generato un valore aggiunto pari a 16,7 miliardi di euro, con un incremento di 0,8 miliardi rispetto all’anno precedente. I consumi finali di beni e servizi illegali sono risultati pari a 19,9 miliardi di euro (+0,9 miliardi rispetto al 2015), che corrispondono all’1,9% del valore complessivo della spesa per consumi finali L’incremento complessivo è determinato dal traffico di stupefacenti il cui valore aggiunto sale nel 2016 a 12,6 miliardi di euro (con un aumento di 0,8 miliardi rispetto al 2015) mentre la spesa per consumo relativa all’acquisto di droghe illegali è pari a 15,3 miliardi di euro (contro i 14,3 miliardi dell’anno precedente). L’incremento registrato su entrambi gli aggregati è quasi interamente riferibile ad un aumento dei prezzi degli stupefacenti a fronte di una sostanziale stabilità dei volumi. Per i servizi di prostituzione si stima un valore aggiunto pari a 3,7 miliardi di euro e consumi per 4,0 miliardi di euro, sostanzialmente invariati rispetto al 2015. Anche le attività di contrabbando di sigarette mantengono un livello analogo all’anno precedente, con un valore aggiunto pari a 0,4 miliardi di euro e un ammontare di consumi di 0,6 miliardi di euro. L’indotto connesso alle attività illegali, principalmente riferibile al settore dei trasporti e del magazzinaggio, si è mantenuto costante, generando un valore aggiunto pari a circa 1,3 miliardi di euro».

Andrea Grossi

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Sun, 9 Dec 2018 16:17:39 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/474/il-sommerso-vale-210-miliardi-di-euro-il-124-del-pil-l-ultimo-rapporto-dell-istat mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Dall’industria del riciclo l’1% del Pil: Italia capofila dell’economia circolare https://www.andreagrossi.net/post/473/dall-industria-del-riciclo-l-1-del-pil-italia-capofila-dell-economia-circolare

Il tema dell'economia circolare comincia ad essere tangibile anche nei dati ufficiali. Si stima che l'industria del riciclo produca l'1% circa del Pil. In Italia si è registrato il più basso consumo domestico di materiali grezzi: 8,5 tonnellate pro-capite contro le 13,5 della media europea. Virtuosa anche l'estrazione di valore dalle risorse utilizzate: 3,34 euro per ogni kg di risorse, contro un valore medio europeo di 2,20 euro per kg. L'Italia è al primo posto per circolazione di materiali recuperati all'interno dei processi produttivi: il 18,5% di riutilizzo contro il 10,7% della Germania. Sulla totalità dei rifiuti prodotti (129 milioni di tonnellate), solo il 21% viene avviato allo smaltimento (contro il 49% della media europea). Sulla totalità dei rifiuti trattati, l'Italia ne avvia al riciclo il 76,9% (il 36,2% nella media Ue). Nel 1999 il 68% dei rifiuti urbani veniva mandato direttamente allo smaltimento, ma oggi questa percentuale è scesa all'8% circa. Si stima che la sola industria del riciclo produca 12,6 miliardi di euro di valore aggiunto (circa l'1% del Pil). Nel 2017 il 48% degli italiani ha acquistato o venduto beni usati, con una crescita dell'11% rispetto al 2016: un mercato che vale 21 miliardi di euro (l'1,2% del Pil). Questi dati sono emersi dal 5° Rapporto Agi-Censis “Perché all'Italia conviene l'economia circolare”[1], realizzato nell'ambito del programma pluriennale «Diario dell'innovazione» della Fondazione Cotec presentato nel corso dell'Opening Event Groundbreakers Pioneers of the Future della Maker Faire Rome 2018. Nella parte delle conclusioni la ricerca così sintetizza il rapporto tra Regioni ed economia circolare. «La massima parte delle Regioni esaminate ha assunto a livello di strategie e programmi una nozione di economia circolare che supera quella di sostenibilità ambientale e riguarda la progettazione dei prodotti, il processo produttivo, il comportamento dei consumatori, la gestione dei rifiuti, le materie secondarie e promuove la innovazione attraverso la R&S. Ciò testimonia il fatto che queste Regioni sono consapevoli che l' economia circolare comporta una radicale innovazione dei metodi di produzione e di quelli di loro trattamento alla fine del ciclo di vita; pertanto tutti questi processi devono essere riconfigurati in modo da essere funzionali e coerenti con il modello di  economia circolare. Nonostante questo approccio strategico all'economia circolare, la maggior parte delle azioni finora intraprese dalle Regioni si concentrano sulla fase finale del ciclo di vita dei prodotti, promuovendo e sostenendo il trattamento dei rifiuti e dei materiali di scarto in vista del loro riutilizzo come materie seconde, nonché la riduzione della produzione di rifiuti. Peraltro vengono affrontate anche altre tematiche e problematiche ambientali quali la riduzione delle emissioni, l’efficienza energetica, l’utilizzo di risorse naturali rinnovabili, l’ottimizzazione dell’impiego di acqua. In alcuni casi vengono realizzate iniziative per innovare i prodotti e i processi di produzione in modo da migliorare le loro caratteristiche ambientali e da chiudere il ciclo “produzione-consumo”».  Interessanti anche le valutazioni contenute nella ricerca dal punto di vista delle imprese. «Molte imprese di diversi settori e dimensioni mostrano un forte interesse all’attuazione del modello di  economia circolare nei proprio prodotti e processi aziendali e sono intenzionate a sviluppare ulteriormente i progetti di innovazione che hanno concepito e avviato. È ampia anche la convinzione che sia necessario adottare azioni specifiche per ciascun settore al fine di facilitate e semplificare il processo di recupero delle risorse non più considerate rifiuti. Interventi e incentivi sono anche richiesti al fine di promuovere l’incontro fra domanda e offerta di i materiali, la cui raccolta va promossa e incentivata sia nel lato delle imprese sia su quello dei consumatori. Elemento fondamentale e critico è la dimostrazione delle sostenibilità economica del modello di economia circolare sia per quanto riguarda le imprese sia per la società nel suo complesso. Se non esiste una evidente convenienza economica per tutti gli attori del processo di implementazione del modello di  economia circolare, esso non risulta fattibile, per lo meno in un’ottica di breve medio periodo. Si registra infine una diffusa consapevolezza che l'  economia circolare sia una strategia critica per la reindustrializzazione dell’Europa, basata sull' innovazione. Peraltro occorre tener conto della presenza e rilevanza di altri modelli emergenti di industria, quali quelli della Cottage/Urbana Industry, della Maker Economy, della Sharing Economy, i quali devono essere coordinati e integrati nel modello di  economia circolare al fine di ottimizzare i risultati».

Andrea Grossi

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Mon, 3 Dec 2018 18:03:04 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/473/dall-industria-del-riciclo-l-1-del-pil-italia-capofila-dell-economia-circolare mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Come saranno smaltite le macerie di Genova? Le richieste di Legambiente https://www.andreagrossi.net/post/472/come-saranno-smaltite-le-macerie-di-genova-le-richieste-di-legambiente

La tragedia del ponte crollato a Genova ha colpito tutta Italia. Dopo il ricordo commosso delle vittime è iniziata la caccia ai possibili responsabili del disastro e gli interrogativi su chi dovrà ricostruire il ponte. C'è però un altro aspetto inevitabilmente passato in secondo piano: lo smaltimento delle macerie. In questi giorni Legambiente ha sottoposto la questione al governo chiedendo precise garanzie sulle modalità di intervento. Il presidente nazionale dell'associazione, Stefano Ciafani, ha scritto una lettera al governatore della Liguria Giovanni Toti, al sindaco di Genova Marco Bucci, al ministro dell'ambiente Sergio Costa ed a quello delle infrastrutture Danilo Toninelli. «In questi giorni si è avuta una accelerazione nelle scelte che riguardano la demolizione del Viadotto Morandi. Si è anche parlato di tecniche di demolizione, ma ancora nulla si è detto su cosa di vuole fare delle macerie. Per Legambiente è fondamentale individuare come e dove si smaltiranno le migliaia di tonnellate di materiali provenienti dalla demolizione del viadotto e di eventuali edifici, così come è necessaria e propedeutica la relazione con gli sfollati che ancora oggi vivono una enorme incertezza sul loro futuro e col tessuto imprenditoriale colpito, che vanno coinvolti nella definizione del Piano».  In particolare secondo Legambiente sono quattro le questioni indispensabili da chiarire: la gestione dei materiali pericolosi, di quelli da recuperare in maniera selettiva, l’utilizzo delle macerie, l’area in cui separare i materiali, la loro movimentazione e la destinazione finale. «È importante – prosegue la lettera - che su temi così importanti, che possono da un lato ridurre l’impatto di queste fasi di cantieri nei confronti della città e dei cittadini e che dall’altro consentono di rafforzare le competenze nel riciclo di materiali in edilizia e di recuperare cave dismesse, si apra subito un confronto con la popolazione locale che ha dovuto abbandonare le proprie abitazioni il sistema delle imprese genovesi e liguri e con gli Enti Locali. I materiali pericolosi provenienti dalla demolizione andranno gestiti con grande attenzione, a partire dall’amianto, per garantire la massima sicurezza dei lavoratori e la prevenzione di inquinamento nelle aree coinvolte durante la fase di demolizione. Per quelli che devono essere gestiti e recuperati in maniera selettiva, andranno rispettati gli obiettivi e il Protocollo che l’Unione Europea UE ha adottato per la gestione dei rifiuti da costruzione e demolizione. Molti di questi possono essere riciclati, come metalli, inerti e cemento, ma anche vetri, legno, plastiche e altro provenienti dagli edifici. Nell’eventualità fosse necessario demolire edifici e capannoni industriali, è necessario che il progetto di demolizione del viadotto individui anche i criteri per realizzare una demolizione selettiva degli stessi in modo da avviare i materiali alle diverse filiere di recupero e riciclo». Solitamente le macerie che provengono da una demolizione contengono il 98% di materiale inerte che opportunamente lavorato può essere poi riutilizzato nelle costruzioni, per riempire le cave dismesse o per i movimenti terra. Secondo Legambiente è opportuno che si individuino le aree di conferimento per il riciclo e riutilizzo attraverso accordi con i proprietari e gli enti locali. «Inoltre, solo attrezzando un sito temporaneo il più possibile prossimo alle aree di demolizione, dove selezionare per poi avviare al riciclo i vari materiali, e una attenta programmazione dei cantieri e in particolare del trasporto può evitare che si complichi ulteriormente la situazione del traffico nella città per il passaggio di migliaia di camion».

Andrea Grossi

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Wed, 28 Nov 2018 17:34:50 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/472/come-saranno-smaltite-le-macerie-di-genova-le-richieste-di-legambiente mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Economia circolare, gli impegni dei produttori di bevande https://www.andreagrossi.net/post/471/economia-circolare-gli-impegni-dei-produttori-di-bevande

Cresce sempre di più la sensibilità da parte dei produttori di bevande sull'utilizzo di materiali compatibili con una maggiore sostenibilità ambientali. Due buone notizie sono arrivate nelle ultime settimane. A cominciare dall'annuncio di AssoBibe[1], l'associazione di Confindustria che rappresenta le imprese che producono bevande analcoliche. Entro il 2025 si è impegnata a produrre bottiglie, etichette e tappi in plastica riciclabili al 100% e  con almeno il 25% di plastica riciclata nelle bottiglie in PET. Non solo. Punterà anche a migliorare la raccolta dei contenitori in plastica realizzati attraverso la collaborazione con i soggetti protagonisti della raccolta rifiuti, ad un maggior riutilizzo degli imballaggi in plastica, puntando a benefici ambientali ma anche a vantaggi economici di una gestione più virtuosa. La situazione di partenza attualmente non sembra comunque essere male. In Italia infatti l'83,5% degli imballaggi di plastica è già raccolto e riutilizzato, stando ai dati forniti proprio da Assobibe, grazie al sistema Conai-Corepla che prevede un costo da parte delle imprese per ogni tonnellata di materiale immesso sul mercato. Gli impegni presi per il futuro fanno parte del programma europeo di Assobibe. «L'obiettivo del settore, i cui imballaggi sono i più raccolti nell'UE - afferma David Dabiankov, direttore generale Assobibe - è quello di contribuire alla creazione di un modello circolare per gli imballaggi in plastica migliorandone la riciclabilità, il contenuto riciclato, la raccolta e il riutilizzo. E' un messaggio davvero importante che questi impegni vengano estesi a tutta Europa: le imprese vogliono che i loro imballaggi, comprese le materie plastiche, siano raccolti e riciclati e non vengano gettati nelle strade, negli oceani e nei corsi d'acqua. Una migliore raccolta e riciclo degli imballaggi, insieme a una maggiore consapevolezza da parte dei consumatori, sono elementi fondamentali per questi obiettivi e per aumentare quantità e qualità di materie plastiche riciclate da poter usare».

Grandi impegni per il futuro sono stati presi anche da PepsiCo[2] che mira entro il 2030 ad utilizzare il 50% di plastica riciclata (rPet) nelle sue bottiglie in tutta l'Unione Europea. L'obiettivo è quello di arrivare al 45% già nel 2025. Per rispettare l'impegno, assunto su base volontaria, la multinazionale americana è pronta ad aumentare di oltre tre volte la quantità di plastica riciclata utilizzata, circa più di 50.000 tonnellate di rPet. Un annuncio dunque di non poco conto che «arriva a supporto della campagna di impegni su base volontaria lanciata dalla Commissione Europea che promuove il riutilizzo della plastica, per assicurare che entro il 2025 nel mercato dell'Unione Europea vengano usate almeno 10 milioni di tonnellate di plastica riciclata per realizzare nuovi prodotti.  L'obiettivo si applicherà alle operazioni di Beverage di PepsiCo, incluse le società di proprietà e quelle in franchising». La novità riguarderà tutti i brand di bevande in Pet di PepsiCo in tutti i Paesi che dovrebbero essere nell'Ue entro il 2025, dal momento che si tratta del materiale più utilizzato per produrre le bottiglie. Tra gli altri obiettivi futuri c'è quello di riprogettare il totale delle sue confezioni per renderle compostabili, riciclabili e biodegradabili, riducendo l'impatto di carbonio entro il 2025. Secondo la società, già oggi il 90% degli imballaggi delle sue bevande sarebbe totalmente riciclabile.

Andrea Grossi

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Tue, 20 Nov 2018 17:16:48 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/471/economia-circolare-gli-impegni-dei-produttori-di-bevande mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Le imprese investono sempre di più nella formazione: fino a 7mila euro a dipendente https://www.andreagrossi.net/post/470/le-imprese-investono-sempre-di-piu-nella-formazione-fino-a-7mila-euro-a-dipendente

La formazione continua a rappresentare per le imprese italiane una cospicua quota dei propri investimenti. Spendono in media dai 4.000 ai 7.000 euro annui a dipendente. Il dato emerge dalle stime di Performance Strategies[1], azienda italiana leader nella formazione business. Il settore che investe di più in formazione è quello del commercio retail/ingrosso (33%), seguito dal settore immobiliare (27%), consulenza (21%) e assicurazioni/finance (19%). Dallo studio emerge anche il tipo di formazione maggiormente ricercato dalle aziende italiane. L'ambito nel quale convergono la maggior parte degli interessi è leadership e management (36%), seguito da commerciale (34%), marketing (21%), sviluppo e motivazione personale (9%). Nei mesi scorsi anche l'Istat[2] aveva provato a delineare il fenomeno. Con il limite delle ricerche di questo tipo che si basano su dati un po' vecchi, in questo caso riferiti al 2015. «Nel 2015 le imprese attive in Italia con almeno 10 addetti hanno speso per i corsi di formazione 1.394 milioni di euro in costi diretti, relativi a docenti, servizi esterni, infrastrutture ecc. A tali costi si aggiungono 2.657 milioni relativi al costo del lavoro dei partecipanti ai corsi, per le ore impegnate nell’attività formativa, e circa 462 milioni come saldo tra i contributi pagati e i finanziamenti ricevuti, per un costo totale di 4.513 milioni di euro. Sulla base del costo complessivo dei corsi di formazione (incluso il costo del lavoro dei partecipanti ai corsi), si è calcolato che il costo medio orario per un corso di formazione è pari a 57 euro. Il livello del costo orario è abbastanza omogeneo rispetto alla dimensione aziendale, con una diminuzione più evidente per le imprese con oltre 1.000 addetti. Anche nel 2015, come per il 2010, il livello dei costi si distribuisce in maniera sostanzialmente omogenea tra i vari settori, ad eccezione dell’industria estrattiva che ha valori superiori alla media (87 euro per ora di corso) e delle attività ausiliarie dei servizi finanziari (77 euro). Nei settori delle attività di trasporto, magazzinaggio, servizi postali e nel settore del commercio al dettaglio il costo orario scende rispettivamente a 45 e 48 euro restando invariato a livello del 2001». Dall'Istat era arrivata anche una fotografia del tipo di formazione più diffusa all'interno delle aziende italiane, delle sue modalità e delle peculiarità dei partecipanti. «La tipologia di formazione tradizionale - il corso frontale in aula con docente - è quella più utilizzata dalle imprese che hanno svolto formazione (87,0%), in linea con i risultati del 2010. Ciò è dovuto anche alla consistente presenza della formazione obbligatoria sulla “sicurezza”, ancora largamente basata sui corsi. Tuttavia sono in deciso aumento altre attività formative: la formazione in situazione di lavoro (training on the job) passa dal 23,9% del 2010 al 46,6% del 2015 e la partecipazione a convegni, seminari dal 26 % al 44,4%. Cresce anche l’autoapprendimento mediante formazione a distanza (FAD), dal 6,4% del 2010 al 20,5% del 2015. La quota di partecipanti ai corsi di formazione sul totale degli addetti delle imprese si attesta intorno al 46% e raggiunge il 60% se si prendono in considerazione gli addetti delle sole imprese che hanno svolto corsi di formazione. L’incremento rispetto al 2010, in entrambi i casi di circa 10 punti percentuali, si riscontra soprattutto nelle imprese medio-grandi mentre in quelle di dimensione inferiore si registra un incremento più moderato».

Credo che il costo per la formazione dei propri dipendenti sia assolutamente imprescindibile per la crescita dell'azienda e di chi ci lavora. All'interno dei nostri gruppi troviamo modalità di formazione sia interna che affidata a società esterne. In quest'ultimo caso diventa fondamentale la serietà e l'affidabilità di queste società di formazione. Solo in questo caso l'investimento aziendale, assolutamente cospicuo, avrà un senso ed un ritorno di valore aggiunto in termini di efficienza e produttività dei propri dipendenti.

Andrea Grossi

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Thu, 15 Nov 2018 17:20:56 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/470/le-imprese-investono-sempre-di-piu-nella-formazione-fino-a-7mila-euro-a-dipendente mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
L’Ue boccia la manovra, preoccupanti scenari per l’Italia https://www.andreagrossi.net/post/476/l-ue-boccia-la-manovra-preoccupanti-scenari-per-l-italia

La manovra economica adottata dal governo, al di là di quelli che saranno i risvolti pratici della versione definitiva, suscita preoccupazione nel mondo industriale e si è attirata numerose censure europee. «Il debito pubblico italiano rimane una vulnerabilità cruciale – scrive al governo la direzione generale affari economici e finanziari[1] -  l'Italia ha notificato a Eurostat un debito lordo delle amministrazioni pubbliche per il 2017 pari al 131,2% del PIL, confermando così che l'Italia non ha compiuto progressi sufficienti verso il rispetto del parametro di riferimento relativo all'adeguamento del rapporto debito/PIL nel 2017. Il DPB 2019 prevede una leggera diminuzione del rapporto debito/PIL dal 131,2% del PIL nel 2017 al 130,9% nel 2018 e al 130,0% nel 2019. La diminuzione del rapporto debito/PIL è poi attesa continuare, fino al 126,7% del PIL nel 2021. Nonostante la riduzione prevista del rapporto debito/PIL, non si prevede che l'Italia soddisfi primafacie il parametro di riferimento relativo all'adeguamento del rapporto debito/PIL nel 2018 e nel 2019 sulla base del DPB 2019. Un debito pubblico così elevato limita lo spazio di manovra del governo per spese più produttive a beneficio dei suoi cittadini. Date le dimensioni dell'economia italiana, è anche una fonte di preoccupazione per l'area euro nel suo complesso (…). In particolare, l’ampia espansione di bilancio prevista per il 2019 è in netto contrasto con l'aggiustamento di bilancio raccomandato dal Consiglio. Questa traiettoria di bilancio, unita ai rischi al ribasso per la crescita del PIL nominale, sarà incompatibile con la necessità di ridurre in maniera risoluta il rapporto debito/PIL dell'Italia».  Parole forti che non lasciano spazio a grandi fraintendimenti e che potrebbero acuire il braccio di ferro portando ad un'accelerazione nella procedura di infrazione nei confronti dell'Italia e quindi dell'arrivo di pesanti sanzioni. Spetterà eventualmente al Consiglio Ue che si riunisce a metà dicembre riscontrare la sussistenza dell'eccessivo deficit: compiuto questo passo si procede verso le sanzioni che possono arrivare ad un massimo dello 0,2% del Pil dell'anno precedente. Decisiva sarà la volontà della Commissione Ue di contestare al governo Conte il mancato rispetto dell'impegno sulla riduzione del debito che era stato preso dall'esecutivo Gentiloni. Nel frattempo anche il mondo industriale e imprenditoriale è fortemente preoccupato degli scenari futuri, viste queste premesse.   «Allora vogliamo essere noi giovani ad aprire una procedura di infrazione nei confronti del Governo per eccesso di cambiali in bianco – ha detto Alessio Rossi, presidente dei giovani di Confindustria[2] - non vogliamo rischiare un vero e proprio declassamento del rating generazionale: il nostro futuro rischia di diventare un titolo junk. Spazzatura. Vorremmo consigliarlo a tutti: basta con le sceneggiate delle manine misteriose, fanno ridere, anzi, quando coinvolgono le più alte istituzioni della Repubblica, fanno piangere. Chi ha la responsabilità di governare il Paese se la assuma pienamente, senza la caccia ai capri espiatori. Altrimenti, con le mistificazioni della realtà, anche le istituzioni diventano bolle speculative». Sento di condividere queste preoccupazioni, forse non abbiamo mai visto nella storia istituzionale e politica del nostro Paese tutta questa leggerezza e questo pressappochismo che aprono uno squarcio piuttosto preoccupante sul futuro economico dell'Italia.

Andrea Grossi

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Sat, 10 Nov 2018 18:15:53 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/476/l-ue-boccia-la-manovra-preoccupanti-scenari-per-l-italia mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Ferrero premia i dipendenti: un modello virtuoso da seguire https://www.andreagrossi.net/post/469/ferrero-premia-i-dipendenti-un-modello-virtuoso-da-seguire

Un premio di risultato che raggiunge i 2000 euro per i dipendenti italiani di Ferrero. L'importante annuncio è arrivato direttamente dall'azienda con una nota[1]. «Il giorno 17 settembre 2018 la Direzione Aziendale Ferrero si è incontrata con le Organizzazioni Sindacali nazionali e territoriali di Fai-Cisl, Flai-Cgil, Uila-Uil e con il Coordinamento sindacale Ferrero delle RSU e delle Rappresentanze Sindacali della Rete Commerciale. L’incontro, previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro, è stato finalizzato ad un’informazione complessiva sugli andamenti di mercato, le prospettive produttive aziendali, i programmi di investimento per gli stabilimenti e le unità aziendali italiane, le tendenze occupazionali nonché le iniziative previste dal vigente Accordo Integrativo Aziendale. Inoltre, sulla base di quanto convenuto nel vigente Accordo Integrativo Aziendale, nel corso dell’incontro si sono esaminati gli andamenti gestionali aziendali e si è determinata la cifra di PLO (premio legato ad obiettivi) per l'esercizio 2017/2018.

L’importo massimo raggiungibile, per l’anno in corso, è di Euro 2.150,00 lordi ed è determinato dall’andamento di due parametri: il risultato economico, unico per tutta l'azienda (che concorre a determinare il 30% del premio), e il risultato gestionale (70% del premio) legato all'andamento specifico di ogni stabilimento/area». I premi risultano differenti nelle varie sedi e precisamente: 

  • ALBA  euro 2.017,56 lordi
  • AREE E DEPOSITI  euro 1.907,44 lordi
  • BALVANO  euro 2.030,60 lordi
  • POZZUOLO  euro 2.003,51 lordi
  • S. ANGELO  euro 2.080,77 lordi
  • STAFF  euro 2.009,24 lordi

 

Le somme saranno erogate con le competenze del mese di ottobre 2018 così come previsto dal vigente accordo integrativo aziendale.

Nello scorso mese di luglio azienda e sindacati avevano firmato il nuovo accordo integrativo per i sei mila addetti in Italia. Tre i punti chiave: un nuovo premio di produttività per i prossimi 4 anni, con un aumento del 14% rispetto al passato, la flessibilità con il rafforzamento del cosiddetto smart working esteso a tutti gli stabilimenti italiani dopo la felice sperimentazione ad Alba ed infine il part-time per i genitori fino al quarto anno di vita dei figli. Ferrero sembra spedita nell'avviare nuove linee produttive con l'obiettivo di sviluppare ulteriori e differenti possibilità di business. Allo studio anche la realizzazione di un modello di banca ore solidale con la conversione del premio legato agli obiettivi in strumenti di welfare aziendale. Una politica, questa della Ferrero, particolarmente orientata anche ai dipendenti e parametrata alla loro capacità di raggiungere obiettivi. Una linea che mi trova perfettamente d'accordo e che ho intenzione anche di inserire nel nostro gruppo. Ritengo infatti che al raggiungimento di quelli che possono essere successi aziendali abbiano inevitabilmente contribuito anche i dipendenti e dunque è giusto premiarli. Inoltre sono assolutamente convinto che siano fondamentali le condizioni di lavoro e di serenità ambientale delle persone che lavorano in un'azienda: migliori sono e migliore sarà la loro produttività. Credo quindi che la strada intrapresa di Ferrero non solo sia quella giusta ma rappresenta anche un modello da seguire per tutti gli altri imprenditori.

Andrea Grossi

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Mon, 5 Nov 2018 18:04:49 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/469/ferrero-premia-i-dipendenti-un-modello-virtuoso-da-seguire mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Il ministro Costa pensiona il Sistri, in arrivo nuovo sistema di tracciabilità dei rifiuti https://www.andreagrossi.net/post/468/il-ministro-costa-pensiona-il-sistri-in-arrivo-nuovo-sistema-di-tracciabilita-dei-rifiuti

Il Sistri, acronimo di sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti, va superato. Parola del ministro dell'Ambiente Sergio Costa in una intervista apparsa sul portale news di Tiscali[1]. «Il codice penale punisce i trafficanti illegali di rifiuti. E l’autorità giudiziaria e la magistratura lavorano per prevenire e reprimere questi traffici criminali. Per quello che mi riguarda, da ministro, credo che vada ripensato il sistema di controllo ambientale dei rifiuti. Si chiama Sistri, ed è in vigore da una decina di anni. In sostanza una scatoletta nera applicata sotto i tir e i mezzi di trasporto dei rifiuti tracciano i percorsi dei mezzi. Dobbiamo riconoscere che Sistri non ha funzionato. Non si tratta di migliorarlo ma di mandarlo in pensione. Entro la prossima primavera entrerà in funzione un nuovo sistema di tracciabilità dei 140 milioni di tonnellate di rifiuti speciali che si movimentano in Italia». Quello che accadrà lo ha fatto intendere lo stesso ministro: saranno utilizzati mezzi dotati di gps e rilevatori satellitari che andranno messi in rete. Il Sistri era nato su iniziativa del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, per permettere l'informatizzazione della tracciabilità dei rifiuti speciali a livello nazionale e dei rifiuti urbani della Regione Campania. Si tratta di un sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti del quale  l’ Arma dei Carabinieri gestisce i processi ed i flussi di informazioni in esso contenuti. «Nell’ottica di controllare in modo più puntuale la movimentazione dei rifiuti speciali lungo tutta la filiera – veniva presentato il sistema nel sito ufficiale[2]viene pienamente ricondotto nel Sistri il trasporto intermodale e posta particolare enfasi alla fase finale di smaltimento dei rifiuti, con l’utilizzo di sistemi elettronici in grado di dare visibilità al flusso in entrata ed in uscita degli autoveicoli nelle discariche. Il Sistri costituisce, quindi, strumento ottimale di una nuova strategia volta a garantire un maggior controllo della movimentazione dei rifiuti speciali. Con il Sistri lo Stato intende dare, inoltre, un segnale forte di cambiamento nel modo di gestire il sistema informativo sulla movimentazione dei rifiuti speciali. Da un sistema cartaceo - imperniato sui tre documenti costituiti dal Formulario di identificazione dei rifiuti, Registro di carico e scarico, Modello unico di dichiarazione ambientale (MUD) - si passa a soluzioni tecnologiche avanzate in grado, da un lato, di semplificare le procedure e gli adempimenti con una riduzione dei costi sostenuti dalle imprese e, dall’altro, di gestire in modo innovativo e più efficiente, e in tempo reale, un processo complesso e variegato che comprende tutta la filiera dei rifiuti, con garanzie di maggiore trasparenza e conoscenza. L’iniziativa si inserisce così anche nell’ambito dell’azione di politica economica che da tempo lo Stato e le Regioni stanno portando avanti nel campo della semplificazione normativa, dell’efficientamento della Pubblica Amministrazione e della riduzione degli oneri amministrativi gravanti sulle imprese». Nella presentazione ufficiale del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti, erano stati utilizzati toni trionfalistici: «I vantaggi per lo Stato, derivanti dall’applicazione del Sistri, saranno quindi molteplici in termini di legalità, prevenzione, trasparenza, efficienza, semplificazione normativa, modernizzazione. Benefici ricadranno anche sul sistema delle imprese. Una più corretta gestione dei rifiuti avrà, infatti, vantaggi sia in termini di riduzione del danno ambientale, sia di eliminazione di forme di concorrenza sleale tra imprese, con un impatto positivo per tutte quelle che, pur sopportando costi maggiori, operano nel rispetto delle regole».

Purtroppo occorre rivelare che di questi benefici se ne sono visti pochi. Il Sistri ha rappresentato ulteriori costi per le aziende senza arrivare ad alcun tipo di sensibile efficienza e miglioramento in materia di tracciabilità dei rifiuti. Dunque ben vengano gli auspici del ministro Costa ed una revisione totale di questo sistema, purché non rappresenti ulteriori fonti di spesa per le aziende e finalmente si riescano a raggiungere gli obiettivi prefissati.

Andrea Grossi

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Fri, 2 Nov 2018 17:01:03 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/468/il-ministro-costa-pensiona-il-sistri-in-arrivo-nuovo-sistema-di-tracciabilita-dei-rifiuti mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Flat tax necessaria ma venga introdotta senza trucchi https://www.andreagrossi.net/post/467/flat-tax-necessaria-ma-venga-introdotta-senza-trucchi

Letteralmente significa tassa piatta, in inglese suona meglio come flat tax. Se ne parla ormai da mesi ed è difficile commentare la possibile introduzione di una misura che ancora oggi sembra avere contorni molto indefiniti, al netto degli annunci su tv e giornali. 

In linea teorica si tratta, come spiega benissimo Wikipedia[1], “di un sistema fiscale non progressivo, basato su una aliquota fissa, tranne quando è accompagnato da deduzione fiscale o detrazione, nel qual caso, anche se l'aliquota teorica è costante, l'aliquota media effettiva che risulta a posteriori è crescente. Solitamente tale sistema si riferisce alle imposte sul reddito familiare, e talvolta sui profitti delle imprese, tassate con un'aliquota fissa. Questo sistema di tassazione fu ideato per la prima volta nel 1956 dall'economista statunitense Milton Friedman. I sistemi di flat tax, messi in atto come proposto, solo in alcuni casi esonerano le famiglie con un reddito inferiore a uno stabilito per legge (no tax area). Le flat tax non sono comuni nelle economie avanzate, le cui imposte statali includono un'aliquota progressiva sui redditi delle famiglie e sugli utili delle aziende, cosicché l'aliquota aumenta in percentuale all'aumentare del reddito. Ad ogni modo, i sistemi che vengono sempre più spesso denominati flat tax presentano in realtà molte differenze rispetto ai classici regimi di flat tax (es.: tasse progressive)”.

Fin dalla campagna elettorale il tema della flat tax era entrato prepotentemente nel dibattito politico.  In casa Lega era stato Armando Siri a proporre questo sistema fiscale che vedeva nel motto “paghiamo meno, paghiamo tutti” una rapida spiegazione della misura. Non c'era comunque nel centrodestra particolare uniformità sulla sua applicazione pratica. Berlusconi sarebbe partito da flat tax al 23% con la prospettiva di diminuzione futura, mentre Salvini voleva partire subito con il 15%.

Lo scorso agosto è stata diffusa la proposta di legge del Governo gialloverde con una introduzione a step. In un primo momento la flat tax sarebbe introdotta per imprese individuali e lavoratori autonomi con reddito inferiore ai 100.000 euro, in sostanza sarebbe un'estensione del cosiddetto modello forfettario che attualmente è applicato alle partite iva con un reddito massimo tra i 25 mila ed i 30 mila euro. Nelle più recenti dichiarazioni Salvini si era spinto a dichiarare di voler far pagare il 15% ad almeno un milione di italiani, sembrando restringere il campo dei beneficiari rispetto a precedenti uscite pubbliche. Le critiche che si fanno alla flat tax riguardano soprattutto un ipotetico vantaggio che ci sarebbe soprattutto per la fasce più ricche della popolazione. Annotazioni di questo stampo sono ad esempio arrivate dall'economista Cottarelli[2]: «La flat tax è stata spesso introdotta in altri paesi con una forte semplificazione del sistema di tassazione. Se viene introdotta così semplificherebbe il sistema, ma costerebbe un sacco di soldi. Anche con due aliquote costerebbe 50 miliardi. Una parte può venire dall'eliminazione di deduzioni e detrazioni. Ma l'altro problema grosso è a chi vanno questi soldi? Di questi 50 miliardi, 35 vanno al 20% più ricco dei contribuenti, il 20% più povero si prende un miliardo. Allora se abbiamo delle risorse da dare a qualcuno, le dobbiamo dare a chi sta al vertice? A me non sembra una grande idea». Nonostante le critiche il governo sembra voler andare avanti, gli unici dubbi rimangono sulle tempistiche. Gli annunci iniziali di applicazioni fin dal 2019 sembrano ritrarsi con il passare delle settimane anche se già dalla prossima manovra qualcosa in direzione flat tax potrebbe essere inserito: i destinatari sarebbero professionisti, snc,srl, sas che optano per il regime della trasparenza e con ricavi massimi annuali di 65 mila euro. Da 65 mila a 100.000 euro si pagherebbe un 5% addizionale, con l'esclusione di startup ed imprese giovanili. A prescindere da quale sia l'effettiva flat tax introdotta, il principio è sicuramente valido e rappresenta anche una forma di alleggerimento della pressione fiscale opprimente che da sempre si respira in Italia. Mi auguro soltanto che poi, a questo tipo di misure non se ne associno altre, magari meno conosciute, che vadano di fatto ad introdurre patrimoniali di fatto in grado di annullare, se non peggiorare, la condizione precedente.

Andrea Grossi

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Mon, 29 Oct 2018 19:37:40 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/467/flat-tax-necessaria-ma-venga-introdotta-senza-trucchi mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Millennial poco propensi al rischio ed al successo imprenditoriale: serve il giusto mix https://www.andreagrossi.net/post/466/millennial-poco-propensi-al-rischio-ed-al-successo-imprenditoriale-serve-il-giusto-mix

I giovani di oggi non sembrano avere un grande spirito imprenditoriale. Almeno i cosiddetti Millennial, ossia la generazione di ragazzi nati tra il il 1981 ed il 1996. Rispetto agli anni '70 i giovani di oggi riescono in modo minore ad aprire aziende. Uno studio del 2014 realizzato dalla Us Small Business Administration ha spiegato come meno del 4% dei trentenni dichiari di appartenere alla categoria dei lavoratori autonomi a tempo pieno, rispetto al 5,4% della precedente generazione, quella che giornalisticamente veniva chiamata la generazione X. La percentuale che si definiva imprenditore dei nati tra il 1944 ed il 1962 era ancora maggiore: il 6,7%. Dunque la tendenza a scendere sembra essere piuttosto marcata. Potrebbe sembrare un controsenso visto che la grande crisi economica iniziata nel 2008 ha fatto diminuire i cosiddetti posti fissi e dunque doveva accompagnarsi un parallelo aumento di iniziative imprenditoriali per cercare di costruirsi un'altra strada. Invece, tra i Millennial, pare esserci una minore propensione al rischio considerando il marcato calo del numero di startup gestite o fondate dai più giovani. I dati dell’US Census Bureau rivelano che il tasso di creazione delle startup è notevolmente calato ed è piuttosto lontano dai livelli precedenti alla crisi.  «I Millennial – afferma Ana Bakshi, direttrice dell' Oxford Foundry project, programma dell’Università di Oxford finanziato dal fondatore di LinkedIn Reid Hoffman -  soffrono davvero di mancanza di fiducia in loro stessi. Di conseguenza per loro non è facile lanciare e far crescere un’azienda. Dagli aspiranti imprenditori arriva soprattutto una richiesta: vogliono sapere come superare la paura del fallimento». Superata però la paura, una volta lanciatisi nell'avventura imprenditoriale, i giovani imprenditori sembrano più propensi a fondare magari più di un'impresa come testimonia lo studio di BNP Paribas del 2015: gli imprenditori nella fascia d'età tra i 20 ed i 35 anni in media avevano fondato un numero doppio di aziende rispetto ai colleghi con un'età superiore ai 50 anni. Purtroppo startup non è sinonimo di sopravvivenza. Il Sole24Ore[1] a questo proposito cita l'esempio del trentenne Rory Bate-Williams che aveva lanciato tre aziende. La prima era una società di noleggio di tende in stile medievale, nata addirittura quando lui era ancora adolescente: è tuttora in attività ma affidata ad un suo familiare. La seconda era stata la piattaforma di messaggistica Boink, già defunta. La terza si chiama Voodoo Chicken e si occupava di street food ed è ancora in una fase embrionale. Stesso discorso si può fare per Kraft, il suo primo successo Doppler Labs  dopo quattro anni ha cessato l'attività mentre HereOne non è ancora decollata. Questi esempi trovano riscontro nei dati ufficiali che riflettono un'amara tendenza: la generazione dei più giovani avrà meno probabilità di trovare successo nelle sue iniziative imprenditoriali rispetto al passato. L'Us Census Bureau vede nei 45 anni l'età più proficua per lanciare una startup, mentre slanci sul mercato tra i 20 ed i 30 anni sono particolarmente rischiosi. Nel Regno Unito ogni anno il numero delle società che spariscono è del tutto equivalente a quelle che nascono. In molti sondaggi i Millennial sostengono di voler essere liberi e quindi scegliere la strada imprenditoriale senza “padroni”. Ma poi pochi hanno forse il coraggio pratico di buttarsi, nonostante rispetto al passato in varie zone del mondo esistano molti aiuti all'imprenditoria giovanile.  «Sussiste ancora un divario enorme tra le ambizioni nutrite dalla generazione dei Millennial e quelle di chi si butta davvero per aprire un’azienda – afferma Robert Osborne del Centre for Entrepreneurs - sommato alla mancanza di esperienza a livello internazionale, ci sarà sempre un senso di disagio e di insicurezza».

Credo che un modello vincente sia rappresentato dal giusto mix. Le aziende devono necessariamente essere sempre giovani per avere quella velocità che serve rispetto ai modelli passati. Viviamo nell'epoca dei social ed in un mondo globalizzato, serve quindi la spregiudicatezza, la velocità, l'incoscienza e la mentalità dei giovani unite alla saggezza dei manager più esperti a cui vanno affiancati.

Andrea Grossi


[1]    http://www.ilsole24ore.com/art/management/2018-07-04/i-millennial-meno-voglia-impresa-e-piu-disposti-fallimento-150911.shtml?uuid=AEkTFzGF&refresh_ce=1

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Thu, 25 Oct 2018 18:16:50 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/466/millennial-poco-propensi-al-rischio-ed-al-successo-imprenditoriale-serve-il-giusto-mix mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Legambiente chiede di mettere al bando la plastica usa e getta https://www.andreagrossi.net/post/465/legambiente-chiede-di-mettere-al-bando-la-plastica-usa-e-getta

Una legge che vieti l'immissione sul mercato dei prodotti usa e getta in plastica. Questo l'appello di Legambiente[1] lanciato durante l'ultima edizione di Festambiente, il festival dell'associazione ambientalista che si è svolto ad agosto in provincia di Grosseto.  «L'Italia si impegni sempre di più nella lotta al marine litter e al contrasto dell'inquinamento da plastica mettendo al bando anche le stoviglie monouso, che se non riciclate in modo corretto, finiscono per inquinare mare e oceani – ha dichiarato Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente - sull'esempio delle Isole Tremiti, bisogna continuare a replicare su tutti i territori ordinanze ad hoc e arrivare ad una legge nazionale contro l'usa e getta non compostabile. L'Italia, già leader nella lotta contro la plastica, può essere capofila anche nella lotta al marine litter. ora si passi al più presto dalle ordinanze sindacali ad una legge nazionale contro l'usa e getta non compostabile, anticipando così l'Europa, come già avvenuto per la messa al bando dei sacchetti non compostabili, dei cotton fioc non compostabili e delle microplastiche nei cosmetici dove l'Italia ha fatto scuola. Grazie all’uso delle sportine riutilizzabili, i sacchetti per la spesa usa e getta in Italia si sono ridotti del 55% negli ultimi cinque anni. Lo stesso lo dobbiamo fare per i sacchetti per l’ortofrutta nei supermercati grazie alla diffusione delle retine riutilizzabili. Oggi l’Italia ha bisogno di un nuovo passo in avanti per praticare concretamente la strategia europea per la lotta all'inquinamento da plastica». La lotta alla plastica monouso che sta vedendo anche le istituzioni europee in prima linea era già iniziata all'inizio dell'estate con una iniziativa congiuntra tra Legambiente e EcorNaturaSì. L'obiettivo, come si legge nel comunicato stampa di presentazione, era quello di «ridurre l’utilizzo di plastica monouso offrendo un’alternativa riutilizzabile ai bioshopper per l’acquisto dell’ortofrutta e aumentare, così, la consapevolezza e la responsabilità dei consumatori. L’iniziativa, la prima in assoluto sul territorio nazionale, prevede la distribuzione di 100mila sacchetti riutilizzabili per l’ortofrutta nei negozi del gruppo EcorNaturaSì: un progetto ambizioso che si declina in primo luogo nei negozi specializzati del biologico NaturaSì e Cuorebio, ma che vuole diventare esempio per tutta la grande distribuzione italiana. In vista della nuova direttiva europea contro l’inquinamento da plastica, EcorNaturaSì, insieme con l’associazione ambientalista, ha voluto lanciare un’iniziativa che guarda oltre le polemiche legate ai sacchetti biocompostabili per l’ortofrutta a pagamento, culminate paradossalmente con un crollo delle vendite dello sfuso e un’impennata degli acquisti di ortofrutta fresca confezionata. L’Italia, infatti, è il settimo paese produttore di rifiuti plastici in Europa, secondo gli ultimi dati l’Eurostat, e negli ultimi sedici anni la produzione pro capite è aumentata leggermente passando da 34.19 chili a 35,05 all'anno. Secondo l’ultimo rapporto Beach Litter di Legambiente, solo sulle spiagge italiane il 31% dei rifiuti censiti è stato creato per essere gettato immediatamente o poco dopo il suo utilizzo. Parliamo di imballaggi di alimenti, carte dei dolciumi, bastoncini per la pulizia delle orecchie, assorbenti igienici, barattoli, mozziconi di sigaretta. I rifiuti plastici usa e getta sono stati rinvenuti nel 95% delle spiagge monitorate, a dimostrazione della gravità del problema». 

L'appello per una legge che bandisca i prodotti usa e getta e plastica arriva perché ad oggi non esiste una normativa che contenga un divieto di questo genere. Dall’inizio dell’anno a oggi, i volontari di Legambiente hanno pulito 500 spiagge italiane rimuovendo circa 180mila tra tappi e bottiglie, 96mila cotton fioc e circa 52mila tra piatti, bicchieri, posate e cannucce di plastica. Se producessimo meno plastica, si inquinerebbe di meno. Dal punto di vista teorico la richiesta di Legambiente è corretta. Bisogna però vedere quale materiale alternativo si vorrebbe utilizzare. Ben vengano queste richieste a vantaggio di tutti ma dal punto di vista pratico occorrerà capire quale sarà lo scenario sostitutivo per valutarne l'effettiva bontà.

Andrea Grossi

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Mon, 22 Oct 2018 17:49:19 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/465/legambiente-chiede-di-mettere-al-bando-la-plastica-usa-e-getta mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Nuove funzioni per il ministero dell’Ambiente: avrà finalmente l’importanza che merita? https://www.andreagrossi.net/post/464/nuove-funzioni-per-il-ministero-dell-ambiente-avra-finalmente-l-importanza-che-merita

Tra i provvedimenti estivi del governo pentastellato c'è stato quello del riordino delle funzioni di alcuni ministeri, tra cui quelle relative al Ministero dell'Ambiente. È diventata legge infatti il  riordino delle attribuzioni dei ministeri dei Beni e delle attività culturali e del Turismo, delle Politiche agricole alimentari e forestali e dell'Ambiente e della tutela del territorio e del mare, nonché in materia di famiglia e disabilità. Dopo il via libera del Senato, il testo è stato approvato senza modifiche dalla Camera con 269 sì, 144 no e 25 astenuti. Le novità le scopriamo innanzitutto dalle prime parole del ministro dell'Ambiente Sergio Costa: «Il ministero avrà piena competenza su Terra dei Fuochi, sugli interventi relativi al dissesto idrogeologico, e sull'economia circolare , per dare così una spinta concreta e fattiva all’imprenditoria della green economy, per coniugare sostenibilità ambientale e nuovi posti di lavoro. È una grande e importante notizia per l'intero Paese siamo felici che il testo sia stato convertito in legge. Sulla Terra dei Fuochi, sugli interventi contro il dissesto e sull'economia circolare il Ministero ha le competenze giuste e ora anche l'architrave legislativa per potersene occupare. Siamo subito al lavoro per poter avviare la macchina ministeriale e poter dare subito risposte al Paese». Lo stesso ministro nelle sue dichiarazioni di intenti per il futuro aveva però sottolineato come tra i problemi da risolvere per ridare centralità al suo ministero ci sia quello del personale[1]. «Bisogna ripensare il Ministero dell’Ambiente come amministrazione pubblica prima ancora che come strumento di governo politico. Si deve infatti affrontare con la massima urgenza la questione del personale in servizio presso il Ministero. Ho trovato personale di eccellente qualità ma ampiamente sottovalutato, i cui compensi sono nettamente inferiori ai colleghi che negli altri Ministeri svolgono le medesime funzioni. In questi ultimi vent’anni c’è stato un accanimento verso il Ministero dell’Ambiente che ha portato a svuotare sempre di più i compiti e le dotazioni del Ministero, demotivando ancora di più il personale in servizio e spingendo molti a lasciare l’Amministrazione. Proprio su questo punto, mi propongo di lavorare per realizzare quanto previsto dal Patto per l’ecologia proposto dalle associazioni ambientaliste in campagna elettorale, firmato non solo dalle forze di maggioranza che sostengono questo Governo ma da tutte le forze politiche presenti oggi in Parlamento. In 32 anni di vita, al Ministero dell’Ambiente non sono mai stati banditi concorsi. Non esiste un ruolo tecnico. Non vi sono state modalità di ingresso volte a selezionare il personale. Come prima cosa dobbiamo, quindi, consentire un grande concorso pubblico per potenziare il Ministero. Le buone idee camminano sempre sulle gambe delle persone: se le persone non sono motivate o sono troppo poche, quelle idee non vedranno mai la luce». La stessa Legambiente[2] pur approvando il riordino di competenze aveva sollevato dubbi proprio sulle capacità pratiche del ministero di poter assolvere alle nuove funzioni. «Ben venga la scelta di affidare al Ministero dell’Ambiente la competenza sulla bonifica della Terra dei fuochi, ancora oggi al palo, problema annoso che il Ministro Sergio Costa conosce molto bene grazie alla sua precedente importante esperienza nella repressione dell’illegalità ambientale in Campania - dichiara Stefano Ciafani, Presidente nazionale di Legambiente - Siamo invece preoccupati per la scelta del Governo di chiudere le strutture di missione con un passaggio di consegne su questioni tecniche importanti, che prima ad esempio svolgeva la struttura contro il dissesto idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche, e che ora il Dicastero dell’Ambiente dovrà seguire e affrontare nonostante le insufficienti risorse a disposizione. Dopo aver passato al Ministero dell’Ambiente i compiti della struttura di missione, serve capire qual è il progetto alternativo con cui il nostro Paese farà fronte alle emergenze e alla necessità di prevenire i numerosi rischi che hanno portato alla creazione di tale struttura, senza tra l’altro che sia stato ancora approvato l’urgente Piano di adattamento ai mutamenti climatici. Negli ultimi due decenni il Ministero ha subito un depauperamento di risorse e personale, per far fronte ai nuovi compiti è fondamentale che vengano garantite all’Ambiente risorse economiche, umane e competenze tecniche qualificate, in modo trasparente con un concorso pubblico, per affrontare alcune tra le priorità del Paese, come il rischio idrogeologico e il superamento delle croniche emergenze legate al ciclo delle acque, facendo al tempo stesso tesoro dell’esperienza accumulata in questi quattro anni con le strutture di missione».

Personalmente ritengo il ministero dell'Ambiente molto importante ma purtroppo ha sempre  avuto poco peso, a livello istituzionale e di relazione con il mondo economico. In Italia purtroppo è sempre stato tenuto ai margini. Bisognerebbe invece fargli assumere una maggiore rilevanza con più responsabilità e responsabilizzazioni. Mi auguro che questo passaggio istituzionale di riordino delle competenza vada in questa direzione.

Andrea Grossi

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Mon, 15 Oct 2018 12:17:26 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/464/nuove-funzioni-per-il-ministero-dell-ambiente-avra-finalmente-l-importanza-che-merita mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Incredibile: le Marche dicono no ai rifiuti come fonte di energia https://www.andreagrossi.net/post/463/incredibile-le-marche-dicono-no-ai-rifiuti-come-fonte-di-energia

Ha fatto discutere la legge regionale approvata nelle Marche con cui si è deciso di non ospitare impianti per riutilizzare i rifiuti come fonte di energia ed il rifiuto di ricorrere al Css, il combustibile selezionato di qualità ottenuto riusando i rifiuti al posto dei combustibili più inquinanti. Una legge che però non vieta l'esportazione di rifiuti da incenerire in altre regioni e dunque quei rifiuti non recuperabili andranno a finire nei termovalorizzatori d'Italia. «Questa legge – recita l'art. 1 - nel rispetto degli strumenti programmatici, definisce le strategie di gestione dei rifiuti escludendo la combustione del combustibile solido secondario (CSS), dei rifiuti o dei materiali e sostanze derivanti dal trattamento dei rifiuti medesimi, quale strumento di gestione dei rifiuti o di recupero energetico».

Da ora in poi gli ambiti territoriali di ogni provincia non potranno più gestire i loro rifiuti tramite incenerimento e quindi dovranno essere adeguati i relativi piani d'ambito. Il consigliere regionale Bisonni, artefice di questa legge, commenta trionfale: «Ho dedicato gli ultimi 10 anni  a combattere la combustione dei rifiuti e oggi finalmente vedo realizzarsi quello che sembrava essere solo un sogno. Insieme a tante persone che mi sono state vicine abbiamo vinto tutte le battaglie ed infine, oggi, anche la guerra contro questa pratica inquinante, oltre che assurda sotto molteplici punti di vista. Con questa legge e Marche voltano pagina e si candidano ad essere la terra delle armonie e della sostenibilità ambientale, dove vivere in modo green permetterà a noi e alle nuove generazioni di guardare al futuro con maggiore speranza e ottimismo». Secondo Bisonni dunque riusare i rifiuti e trasformarli in fonte di energia sarebbe «una pratica inquinante e assurda sotto molteplici punti di vista».

C'è però da dire che le Marche seppelliscono in discarica ben 788 tonnellate di rifiuti. Come ha rilevato Jacopo Gilberto sul suo blog nel Sole 24 Ore[1]: « i cementifici della regione potranno continuare a bruciare tonnellate di pet-coke invece del più pulito css. e la raccolta differenziata, che ha bisogno di riusare i materiali come fonte di energia per poter riequilibrare i flussi, funzionerà ancora a singhiozzo. I dati Ispra sui rifiuti che le Marche ficcano nelle discariche autorizzate sono eloquenti: delle 12 discariche autorizzate la più grossa è quella di Maiolati Spontini, ma rilevanti sono anche quelle di Fermo, di Ascoli e di Tavullia». E saranno proprio le discariche a trarre vantaggio da questo nuovo scenario che avrà anche altre ripercussioni. L’inceneritore di Macerata, fermo da ormai 5 anni, non potrà essere riacceso come aveva chiesto il consorzio Cosmari, il proprietario dell'impianto. Nelle Marche non saranno più costruiti il nuovo inceneritore previsto con il decreto Sblocca Italia varato dal governo Renzi. Saranno stoppate altre nuove opere di questo tipo.  Niente inceneritori, niente export, niente ricavo di energia dai rifiuti e dai suoi scarti. Credo che questo sia un modello totalmente sbagliato perché il rifiuto è un bene combustibile in grado di produrre energie a costi più bassi. Iniziative come questa sembrano essere volte quasi a far innalzare ulteriormente il costo della vita in un contesto economico molto difficile per tutti. Forse non è un caso che Marche, Umbria e Toscana sono tre regioni dove per noi è quasi impossibile poter entrare nel mercato.

Andrea Grossi

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Thu, 11 Oct 2018 20:43:00 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/463/incredibile-le-marche-dicono-no-ai-rifiuti-come-fonte-di-energia mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Bene il daspo per i corrotti ma non può essere a vita https://www.andreagrossi.net/post/462/bene-il-daspo-per-i-corrotti-ma-non-puo-essere-a-vita

Il governo sembra procedere diretto verso l'introduzione di nuove norme che sulla carta dovrebbero inasprire le pene in caso di corruzione. Il Consiglio dei Ministri infatti, su proposta del Ministro della giustizia Alfonso Bonafede, ha approvato un disegno di legge che introduce nuove misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione. Vediamo in particolare quali sono i provvedimenti che si intende assumere in materia: la prima parte del testo  apporta modifiche alle norme che disciplinano la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, ed è finalizzato a potenziare l’attività di prevenzione, accertamento e repressione dei reati contro la pubblica amministrazione. Ciò in linea con le raccomandazioni provenienti dal Gruppo di Stati contro la corruzione (GRECO) e dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE). Nel dettaglio il disegno di legge prevede:

  • l’innalzamento delle pene per i reati di corruzione per l’esercizio della funzione, con il minimo della pena che passa da uno a tre anni e il massimo da sei a otto anni di reclusione;
  • l’introduzione del divieto, per i condannati per reati di corruzione di contrattare con la pubblica amministrazione (cosiddetto “Daspo per i corrotti”) da un minimo di 5 fino a una interdizione a vita, non revocabile per almeno 12 anni neppure in caso di riabilitazione;
  • la possibilità di utilizzare anche per i reati di corruzione la figura dell’Agente sotto copertura;
  • l’introduzione di sconti di pena e di una speciale clausola di non punibilità per chi denuncia volontariamente e fornisce indicazioni utili per assicurare la prova del reato e individuare eventuali responsabili;
  • la confisca dei beni anche nel caso di amnistia o prescrizione intervenuta in gradi successivi al primo.

Il disegno di legge prevede, inoltre, l’assorbimento del cosiddetto millantato credito nella fattispecie del “traffico di influenze illecite”.  Nella seconda parte del testo troviamo norme in materia di trasparenza e controllo dei partiti e movimenti politici, volte a rendere in ogni caso palese al pubblico e sempre tracciabile la provenienza di tutti i finanziamenti ai partiti politici e altresì alle associazioni e fondazioni politiche nonché ad analoghi comitati e organismi pluripersonali privati di qualsiasi natura e qualificazione.

Se c'è una condanna definitiva trovo che il provvedimento sia giusto purché, come sembra a leggere il testo, queste restrizioni scattino solo dopo il pronunciamento della Cassazione. L'importante è che le conseguenze non partano invece anche solo di fronte ad una indagine o ad una misura cautelare. Quando si sbaglia è giusto pagare in caso di condanna definitiva ma scontata la pena è altrettanto giusto potersi rimettere in gioco visto che tra le funzioni della pena c'è quella rieducativa. Dopo averla scontata è quindi necessaria una riabilitazione. Ecco perché ero e sono fortemente contrario al daspo a vita per i corrotti che sembra in parte rimasto nel testo anche se successivamente revocabile.

Andrea Grossi

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Fri, 5 Oct 2018 12:42:46 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/462/bene-il-daspo-per-i-corrotti-ma-non-puo-essere-a-vita mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Una banca di promozione nazionale per rilanciare le infrastrutture https://www.andreagrossi.net/post/461/una-banca-di-promozione-nazionale-per-rilanciare-le-infrastrutture

Nelle ultime settimane si è tornati a parlare dello slancio a nuovi investimenti in opere e infrastrutture che potrebbe arrivare dalla Cassa Depositi e Prestiti. Ed anche nel settore della gestione e del trattamento dei rifiuti, considerato l'atavico ritardo italiano, sarebbe una manna dal cielo. La stessa cassa depositi e prestiti nel suo sito ufficiale scrive[1]: «Per la realizzazione di nuovi impianti e l’ammodernamento di quelli esistenti si stima che il fabbisogno di risorse sia ingente e richieda necessariamente l’attivazione di capitali privati. Tuttavia ad oggi il settore non è risultato particolarmente attrattivo, più per le difficili condizioni di contesto che per caratteristiche intrinseche, che invece lo renderebbero adatto sia allo sviluppo di forme di partenariato pubblico-privato, sia a interventi su base corporate. Il sistema burocratico/amministrativo italiano ha reso poi i tempi di realizzazione di nuovi impianti particolarmente lunghi: per autorizzare un nuovo progetto servono in media almeno 7-8 anni; persino le autorizzazioni per l’ammodernamento degli impianti già esistenti richiedono una media di 5-6 anni di attesa. Uno degli elementi più controversi per la realizzazione della dotazione impiantistica è legato poi alla bassa accettazione sociale degli impianti di trattamento, smaltimento e recupero dei rifiuti, che rende difficile non solo la realizzazione di nuove strutture, ma anche la normale attività di imprese già a regime. Tramite finanziamenti Corporate o di Project Finance supportiamo gli investimenti per opere, impianti, reti di pubblica utilità o destinati alla fornitura di servizi pubblici nei settori energia, autostrade, trasporto pubblico e di massa, logistica, porti, interporti, aeroporti, sanità, ambiente, idrico, rifiuti, telecomunicazioni, turismo, efficientamento energetico e green economy.». Come ha rilevato Il Sole 24 Ore occorrerebbe arrivare ad una nuova classe di investimenti finanziari per poter accendere l'interesse degli operatori del settore. La Cassa Depositi e Prestiti potrebbe quindi diventare la promotrice di quei fondi di investimento alternativi previsti dal regolamento ELTIF (European Long Term Investment Fund) e diventare davvero una banca di promozione nazionale in grado di poter intervenire in modo molto più rilevante nel capitale di rischio delle imprese per svilupparne l'espansione, l'apertura a livello internazionale e soprattutto gli investimenti infrastrutturali in settori come quello della gestione dei rifiuti, dove occorrono tecnologie innovative e nuovi impianti. Un settore delicatissimo che rischia di implodere senza interventi incisivi. Gli ELTIF sono stati creati per veicolare il risparmio privato verso l'economia reale, concepiti come vettori di investimento per integrare le risorse del sistema bancario e far arrivare i finanziamenti alle imprese che realizzano le infrastrutture dei paesi europei. A tre anni dall'approvazione del regolamento europeo su questi fondi di investimento a lungo termine, diventato operativo solo dallo scorso dicembre, siamo ancora ad una fase embrionale. «Dove reperire le risorse finanziarie necessarie per riprendere ad investire – si chiede Il Sole 24 Ore[2]senza aumentare il debito pubblico? È immaginabile creare un nuovo asset class finanziario in grado di attrarre gli investimenti dei grandi intermediari finanziari che non hanno dimostrato negli ultimi decenni grande interesse per l'economia reale? La risposta è affermativa ad entrambe le domande. L'investimento in attività reali di lungo periodo è una esperienza, come accennato, che ha dato risultati positivi. Molti paesi dell'Europa sono dotati, inoltre, di strumenti di promozione degli investimenti in grado di intervenire a favore dello sviluppo delle attività imprenditoriali con la funzione di National Promotional Banks (NPBs, KfW, CDC, CDP, ICO), costituendo piattaforme internazionali/nazionali/regionali verso le quali fare confluire».    E qui sarebbe il possibile ruolo della Cassa Depositi e Prestiti: come dicevo prima, un suo intervento negli investimenti nel settore rifiuti sarebbe una manna dal cielo per le imprese che vi operano. Spesso però vengono messi vincoli di non finanziabilità. Si fanno solo annunci sui giornali e poi dal punto di vista pratico non cambia niente. Le imprese non aspettano altro che veder finanziate le opere per lo sviluppo di questo Paese.

Andrea Grossi

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Tue, 25 Sep 2018 16:57:59 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/461/una-banca-di-promozione-nazionale-per-rilanciare-le-infrastrutture mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Marchionne era un numero uno: mix esplosivo tra talento e competenze https://www.andreagrossi.net/post/460/marchionne-era-un-numero-uno-mix-esplosivo-tra-talento-e-competenze

Sergio Marchionne era il numero uno dei manager nel mondo. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, era una persona pratica ed operativa. I risultati  gli hanno dato ragione.

Ha salvaguardato una marea di posti di lavoro ed è stato anche incredibilmente osteggiato per la vicenda dello stabilimento di Pomigliano.

Ha preso la Crhysler, l'ha salvata creando ancora più occupazione. Ha portato la Fiat, azienda tecnicamente fallita a generare grandi utili, a svecchiarla ed ha rinnovare la sua immagine ed il suo marchio. Non si è mai fatto mettere i piedi in testa da nessuno, ha lavorato con le risorse generate dall'azienda senza chiedere niente a nessuno, in netta discontinuità con il passato. Per tutti questi motivi è stata quindi una grande perdita a livello mondiale, mi dispiace solo non averlo potuto frequentare molto, era davvero il numero uno.

Aveva un mix esplosivo che univa i suoi studi alle sue capacità. Figlio di un maresciallo dei Carabinieri ha rappresentato uno dei pochi casi in cui una persona  sia riuscita a coniugare il suo grande talento con i tre titoli di studio primari conseguiti. Studiando filosofia era in grado di inquadrare subito le persone, con le conoscenze economiche sapeva perfettamente leggere un bilancio e con le nozioni giuridiche acquisite a giurisprudenza poteva comprendere un contratto. Tutto questo era un concentrato esplosivo e probabilmente irripetibile. Stiamo parlando di una persona che è stata in grado di portare la Fiat in America, qualcosa di straordinario. Spesso si lodano le personalità solo perché sono venute a mancare, in questo caso però non è così: Marchionne ha lasciato un grandissimo insegnamento ed esempio per tutto il mondo economico italiano.

Andrea Grossi

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Mon, 17 Sep 2018 16:53:59 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/460/marchionne-era-un-numero-uno-mix-esplosivo-tra-talento-e-competenze mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Economia circolare, concetto ancora troppo confinato alla teoria https://www.andreagrossi.net/post/459/economia-circolare-concetto-ancora-troppo-confinato-alla-teoria

Ormai da tempo si sente parlare di economia circolare ed anche a livello europeo, la Commissione Europea[1] la considera un obiettivo primario per i prossimi anni adottando un pacchetto di misure “per aiutare le imprese e i consumatori europei a compiere la transizione verso un’economia più forte e più circolare, in cui le risorse siano utilizzate in modo più sostenibile”. Nelle intenzioni della Commissione si arriverà a  "chiudere il cerchio" del ciclo di vita dei prodotti, incrementando il riciclaggio e il riutilizzo in grado di portare vantaggi sia all’ambiente che all’economia. I piani mirano a fare il massimo uso di tutte le materie prime, i prodotti e i rifiuti e a ricavarne il massimo valore, favorendo i risparmi energetici e riducendo le emissioni di gas a effetto serra. Le proposte della Commissione riguardano l’intero ciclo di vita dei prodotti: dalla produzione e dal consumo fino alla gestione dei rifiuti e al mercato delle materie prime secondarie. La transizione è sostenuta finanziariamente dai Fondi strutturali e d’investimento europei (fondi ESI), che comprendono 5,5 miliardi di euro per la gestione dei rifiuti. Inoltre, viene fornito un sostegno di 650 milioni di euro nell’ambito di Orizzonte 2020 (il programma di finanziamento dell’UE per la ricerca e l’innovazione) e da investimenti nell’economia circolare a livello nazionale. Anche in Italia si è mosso il ministero dell'Ambiente[2], soprattutto per inquadrare e misurare nel concreto gli effetti e gli obiettivi di una autentica economia circolare.

A novembre del 2017 era stato pubblicato il documento “Verso un modello di economia circolare per l’Italia”, redatto congiuntamente dal Ministero dell’Ambiente e Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) con l’obiettivo di fornire un inquadramento generale dell’economia circolare nonché di definire il posizionamento strategico sul tema, costituendo il primo passo per la realizzazione di quello che sarà il vero e proprio “Piano di Azione Nazionale sull’Economia circolare”. Era emersa da più parti la necessità di misurare la circolarità al fine di dare maggiore concretezza alle azioni perseguire in materia. «Pertanto – scrive il ministero dell'Ambiente - a seguito delle sollecitazioni ricevute da imprese, associazioni di categoria, consorzi, rappresentanti delle pubbliche amministrazioni, il Ministero dell'Ambiente ed il MISE, con il supporto tecnico e scientifico dell’ENEA, hanno avviato un “Tavolo di Lavoro” tecnico con l’obiettivo di individuare adeguati indicatori per misurare e monitorare la circolarità dell’economia e l’uso efficiente delle risorse a livello macro (sistema paese), meso (regione, distretto, settore, ecc.) e micro (singola impresa, organizzazione, amministrazione). Gli indicatori elaborati dal “Tavolo di Lavoro” tecnico  non sono, tuttavia, da considerarsi esaustivi ma rappresentano la base di partenza per arrivare, in futuro, all’individuazione delle migliori soluzioni disponibili per il sistema Italia in termini di massimizzazione dei benefici economici e di salvaguardia delle risorse». Proprio da quest'ultimo passaggio si comprende come siamo ancora all'interno di concetti piuttosto aleatori. L'economia circolare sarebbe importantissima ma bisogna cominciare a metterla in pratica, se ne sente parlare ancora troppo a livello di teoria. Dovrebbe essere invece resa fattibile e non limitarla a dibattiti o studi. Da sempre io ho un approccio tutto orientato alla pratica come dimostra la mia storia imprenditoriale. Vedo un governo ancora non focalizzato sulle vere esigenze delle aziende, temo quindi che anche questa iniziativa congiunta di Ministero dell'Ambiente e Mise possa rimanere confinata a qualcosa di scarsa applicazione pratica.

Andrea Grossi

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Wed, 5 Sep 2018 17:14:46 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/459/economia-circolare-concetto-ancora-troppo-confinato-alla-teoria mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)
Emergenza rifiuti a Roma ed in Sicilia: mancano gli impianti https://www.andreagrossi.net/post/458/emergenza-rifiuti-a-roma-ed-in-sicilia-mancano-gli-impianti

Da Roma alla Sicilia sono state settimane molto difficili sul fronte dei rifiuti.  L'ufficio d'igiene dell'Asp n.2 di Caltanissetta è intervenuto più volte dichiarando l'esistenza di una emergenza igienica in città e inducendo il sindaco ad emettere in due occasioni una ordinanza di rimozione straordinaria dei cumuli di spazzatura. La prima volta lo smaltimento è avvenuto. La seconda volta invece il provvedimento sarebbe rimasto bloccato nei cassetti dei dirigenti comunali, suscitando l'ira dello stesso primo cittadino.

Questo contenzioso che si trascina ormai da 5 mesi, con l'arrivo del caldo torrido, ha reso Gela e le sue periferie una vera e propria "bomba" ecologica. Situazione molto delicata anche a Mazara del Vallo con circa 500 tonnellate di rifiuti sparsi nel territorio e non trasferibili subito in discarica. Il sindaco ha dato disposizione agli uffici di predisporre ogni atto necessario per la rimozione forzata degli stessi rifiuti. « L'emergenza rifiuti in Sicilia – ha detto il presidente della Regione Nello Musumeci -  durerà ancora un anno, fino a quando non saranno realizzate le nuove discariche e nuovi impianti. Dobbiamo correre contro il tempo. Non possiamo affrontare una gestione ordinaria. Molto è determinato dal basso tasso di raccolta differenziata, gli impianti sono pochi e non riescono a smaltire i rifiuti indifferenziati. Purtroppo dal ministero dell'Ambiemte non abbiamo avuto grande disponibilità. Il commissariamento dato due mesi fa non ci dà grandi poteri speciali.  Stiamo lavorando alla bonifica delle discariche pericolose, in  Sicilia ce ne sono 510, non sappiamo quante di queste siano effettivamente pericolose lungo le falde acquifere perché alcune sono dormienti, per questo abbiamo stipulato una convenzione con la struttura del dissesto idrogeologico e con l'istituto nazionale di geofisica e vulcanologia per potere affrontare l'emergenza bonifiche dato che non disponiamo del personale sufficiente».  Anche nella capitale il problema ha di nuovo raggiunto picchi preoccupanti, si anche registrato il rifiuto della Germania di prendersi 700 tonnellate di rifiuti indifferenziati.

Queste emergenze si creano perché in Italia non si realizza un numero sufficiente di impianti credendo che si tratti sempre di un problema del vicino. Credo che Roma e la Sicilia rappresentino l'inizio di una situazione molto difficile che si creerà anche in altri luoghi. Se ogni provincia o regione fosse in grado di smaltire i propri rifiuti con la presenza di idonei impianti, si risolverebbe ogni problema. Invece nel sistema italiano si è costretti a portarli in altre zone del Paese od addirittura all'estero con gli alti costi di trasporto che ricadono poi sulla collettività. 

Andrea Grossi

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Thu, 30 Aug 2018 10:30:42 +0000 https://www.andreagrossi.net/post/458/emergenza-rifiuti-a-roma-ed-in-sicilia-mancano-gli-impianti mail@VincenzoCimini.it (Andrea Grossi)