Mancano impianti di smaltimento: la crisi della plastica negli USA
Il quotidiano The Guardian in un’indagine pubblicata a giugno ha evidenziato come la filiera di riciclo delle materie plastiche in America non funzioni, al contrario di ciò che promuove l’industria della plastica.
L’inchiesta ha portato alla luce che centinaia di migliaia di tonnellate di plastica provenienti dal territorio americano vengono spedite ogni anno nei paesi in via di sviluppo, con spedizione mal regolate, e siano destinate ad un processo di riciclaggio sporco e ad alta intensità di manodopera. Le conseguenze per la salute pubblica e l'ambiente sono gravissime[1].
Questi fallimenti nel sistema di riciclaggio si stanno aggiungendo a un crescente senso di crisi intorno alla plastica, un materiale un tempo creduto meraviglioso che ha agevolato la produzione di moltissimi tra i beni di consumo abituali e non, dagli spazzolini da denti agli elmetti spaziali, ma che ora si trova in enormi quantità negli oceani e in quantità preoccupanti anche nel sistema digestivo umano.
Il problema è diventato incombente, tanto da spingere 187 paesi a firmare un trattato che conferisce alle nazioni il potere di bloccare l'importazione di rifiuti di plastica contaminati o difficili da riciclare. Alcuni paesi non hanno firmato. Tra questi, gli Stati Uniti.
I funzionari di tutto il mondo hanno vietato gli inquinanti plastici, come cannucce e borse fragili, eppure l'America da sola genera 34,5 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica ogni anno, sufficienti a riempire uno stadio di calcio 1.000 volte.
Del 9% della plastica americana che secondo le stime dell'Agenzia per la protezione ambientale è stata riciclata nel 2015, la Cina e Hong Kong, che hanno sviluppato una vasta industria di raccolta e riutilizzo delle materie plastiche più preziose per realizzare prodotti che potrebbero essere venduti al mondo occidentale, ne hanno gestito oltre la metà: circa 1,6 milioni di tonnellate.
Purtroppo la gran parte dei rifiuti provenienti dall'America era contaminato da cibo o sporcizia e doveva essere semplicemente messo in discarica in Cina.
Il governo cinese ha, così, deciso di diminuire le importazioni dei rifiuti plastici e cartacei, imponendo a partire dal 1° gennaio 2018 il blocco delle importazioni di 24 tipologie di rifiuti, tra cui plastica, carta da macero e scarti tessili, a cui quest’anno sono state aggiunte altre 16 tipologie, tra cui rottami di auto e navi demolite. Si tratta infatti di materiale considerato di bassa qualità, i cui costi di importazione e riciclaggio non sono più convenienti per il mercato cinese. La Cina ha deciso quindi di importare solo rifiuti “di qualità”, più facilmente riciclabili, ma così facendo ha provocato problemi enormi, che a cascata riguardano tutti i paesi che per anni avevano venduto alla Cina i loro rifiuti[2].
In occasione del recente Global Recycling Day, una rivista prestigiosa quale The Atlantic ha pubblicato un lungo articolo dal titolo gravato di un pesante punto interrogativo che non lascia spazio a metafore: “Is this the end recycling?”. È la fine per il riciclaggio?[3]
Dopo il divieto cinese, i rifiuti di plastica americani sono quindi diventati una patata bollente globale, e stanno rimbalzando da un paese all'altro.
Uno studio condotto dalla ricercatrice dell'Università della Georgia Jenna Jambeck ha evidenziato come la Malesia, il più grande destinatario del riciclaggio di plastica degli Stati Uniti dopo il divieto cinese, abbia gestito male il 55% dei propri rifiuti di plastica, che sono stati scaricati o smaltiti in modo inadeguato in siti come discariche aperte. Anche l’'Indonesia e il Vietnam hanno gestito erroneamente rispettivamente l'81% e l'86%.
Poiché però anche paesi come il Vietnam, la Malesia e la Thailandia hanno vietato le importazioni, i documenti mostrano che i rifiuti di plastica si stanno dirigendo verso nuovi paesi. Le spedizioni iniziano ad arrivare in Cambogia, Laos, Ghana, Etiopia, Kenya e Senegal, che in precedenza non avevano gestito praticamente nessuna plastica statunitense.
Il Guardian ha scoperto che ogni mese durante la seconda metà del 2018, le navi portacontainer hanno trasportato circa 260 tonnellate di rottami di plastica statunitensi in uno dei luoghi più distopici e ricoperti di plastica di tutti: la città costiera cambogiana di Sihanoukville, dove, in alcune aree, quasi ogni centimetro dell'oceano è coperto di plastica galleggiante e la spiaggia non è altro che un luccicante tappeto di polimeri[4].
La plastica è giunta lì attraverso una fitta, complessa e nefasta rete commerciale che attraversa gli oceani e in cui pochi consumatori comprendono il loro ruolo che ricoprono al suo interno. Ora, quella rete è a un punto di rottura.
In passato, aveva senso economico spedire la plastica in Asia, perché le compagnie di navigazione che trasportano i manufatti cinesi negli Stati Uniti finiscono con migliaia di container vuoti. In assenza di merci americane per riempirle, le aziende sono state disposte a spedire il riciclaggio americano a prezzi stracciati.
Non possiamo far altro che abbracciare ciò che ha recentemente scritto Michael J Sangiacomo di Recology in un editoriale: “Il fatto è che semplicemente c'è troppa plastica e troppi tipi diversi di plastica che viene prodotta e ci sono pochi, se non nessuno, mercati finali possibili per il materiale”[5].
[1] Erin McCormick, Where does your plastic go? Global investigation reveals America’s dirty secret, The Guardian, 17 giugno 2019.
[2] La crisi del riciclo negli Stati Uniti, il Post, 6 marzo 2019.
[3] Marco Valsania, La guerra dei rifiuti tra USA e Cina mette a rischio il riciclaggio globale, 13 aprile 2019.
[4] Erin McCormick, Where does your plastic go? Global investigation reveals America’s dirty secret, The Guardian, 17 giugno 2019
[5] Ibid.