Sharing e Mobility Manager: così innovazione e nuove figure professionali favoriscono l’economia circolare
Il passaggio da un’economia lineare ad un’economia circolare può essere promosso attraverso forme innovative di consumo che prevedono la condivisione di beni e servizi. Sharing economy e pay-per-use sono sicuramente un esempio di questo modo “alternativo” di guardare al prodotto, permettendo di aumentare il tasso di utilizzo del prodotto stesso e di migliorare la sua efficienza in generale.
Attualmente l’Italia non si avvale ancora di questi modelli di mercato tanto quanto il resto d’Europa. Il nostro Paese risulta particolarmente attivo nel settore dei trasporti (car/bike/motobike sharing) e degli imballaggi (per i pallet o per alcune bottiglie di vetro). Alla condivisione così intesa, si preferisce piuttosto il mercato del noleggio, soprattutto per ciò che concerne le apparecchiature. Prendendo spunto da alcuni dati forniti da Eurostat sul noleggio e il leasing di apparecchiature per uffici, compresi i computer, relativamente alle 4 più grandi economie europee, osserviamo come il nostro Paese vanta la presenza più numerosa di imprese – 599 nel 2016 a fronte delle 287 e 276 rispettivamente della Germania e della Francia, e delle 453 (dato 2015) del Regno Unito -, ma con un fatturato molto più basso nello stesso anno rispetto a quello della Francia e della Germania. Un adeguamento ai fatturati francesi o tedeschi consentirebbe anche di incrementare ulteriormente un’occupazione già significativa per l’Italia[1].
Per poter rendere più efficace l’approdo a questo nuovo modello di consumo (che ci guiderà così verso una circular economy) nelle aziende, si è venuta a creare una nuova figura professionale dedicata al settore della mobilità condivisa: il Mobility Manager.
La mobilità condivisa è un fenomeno che consiste in una generale trasformazione del comportamento degli individui che, progressivamente, tendono a preferire l’accesso temporaneo ai servizi di mobilità piuttosto che utilizzare il proprio mezzo di trasporto, fino a non possederlo affatto. Dal lato dell’offerta, questo fenomeno consiste nell’affermazione e diffusione di servizi di mobilità che utilizzano le piattaforme digitali per facilitare la condivisione di veicoli e/o tragitti, promuovendo servizi flessibili e scalabili che sfruttano le risorse latenti già disponibili nel sistema dei trasporti.
Il Mobility Manager è il responsabile della mobilità aziendale. Tale figura professionale è stata introdotta in Italia con il D.M. 27 marzo 1998, recante norme in materia di “Mobilità sostenibile nelle aree urbane”. In base al testo di legge, il compito principale del Mobility Manager Aziendale è la redazione del Piano degli Spostamenti Casa Lavoro (PSCL) del proprio personale dipendente, finalizzato alla “riduzione dell’uso del mezzo di trasporto privato individuale e ad una migliore organizzazione degli orari per limitare la congestione del traffico”. Il piano, che deve essere trasmesso entro il 31 dicembre di ogni anno, è importante in quanto, oltre ad influire positivamente sulla qualità dell’aria (riducendo il traffico e quindi le emissioni in atmosfera ad esso collegate), permetterebbero all’organizzazione e a chi lavora per essa, di ottimizzare i costi per gli spostamenti[2]. Il decreto stabilisce che le imprese e gli enti pubblici con più di 800 addetti ubicate in comuni identificati dalle regioni come a “rischio di inquinamento atmosferico” sono tenuti ad adottare il PSCL e ad identificare il responsabile della mobilità. In tal caso il Mobility Manager Aziendale diventa una figura cruciale per l’impresa. Ogni organizzazione può naturalmente dotarsi di un responsabile della mobilità qualora lo ritenga opportuno.
Vi sono tre differenti tipi di Mobility Manager: aziendale, il cui compito principale è redigere il PSCL; di area, che gestisce le strutture di supporto e coordinamento dei Mobility Manager Aziendali; scolastico, che agevola e organizza gli spostamenti casa-scuola degli alunni e del personale.
Il Sole 24 ore nel 2016 ha censito in Italia circa 850 Mobility Manager, di cui 750 aziendali.
Le iniziative in merito allo sharing non stanno solo investendo il mercato della mobilità. Queste stanno approdando ad uno dei settori al momento meno ecosostenibili: l’industria tessile.
La spesa totale delle famiglie per l’abbigliamento nell’Unione Europea è risultata nel 2012 pari a 314 miliardi di euro, corrispondente al 4,2% della spesa totale delle famiglie. Ed è aumentato di circa il 40% tra il 1996-2012[3].
La produzione e il consumo nel settore tessile è, ad oggi, ancora basato sul modello economico lineare in cui gli indumenti a fine vita vengono smaltiti in discarica. Le prime iniziative di sharing in questo settore si sono concentrate sulla raccolta e il riutilizzo di abiti usati. Uno studio condotto dall’ECAP (European Clothing Action Plan) ha realizzato una ricognizione in 6 città europee di buone pratiche dedicate alla raccolta di abiti e tessuti usati ai fini del riuso[4].
In particolare, l’analisi dell’ECAP valuta le prestazioni di raccolta attraverso una stima dei tassi di recupero dei tessuti a fine vita e delle quantità di tessuti usati raccolti espressi come percentuale di nuovi prodotti tessili immessi sul mercato.
L’Italia, a fronte di un consumo abbastanza elevato di prodotti tessili, presenta un tasso di raccolta basso rispetto alle altre realtà europee: le quote di raccolta variano dall’11% in Italia a oltre il 70% in Germania.
[1] Si veda il Rapporto sull’economia circolare in Italia del 2019, Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo sostenibile.
[2] Eleonora Perotto, Mobility Manager, chi è, cosa fa, come si diventa, quanto si guadagna, Teknoring.
[3] Dati EEA, 2014.
[4] Si veda il Rapporto sull’economia circolare in Italia del 2019, Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo sostenibile.